In Cina sempre più matrimoni falliscono. Falliscono per volere delle mogli ma contro la volontà delle autorità in un braccio di ferro che vede la crescente emancipazione femminile contrapporsi alle esigenze sociali e al bagaglio dei valori di stampo confuciano. In dieci anni, tra il 2006 e il 2016, il numero dei divorziati è raddoppiato, passando da 1,5 a 3 su 1000 persone per un totale di 4,2 milioni di casi. Stime che acquistano significato se lette alla luce di un dettaglio per nulla scontato: secondo un recente rapporto della Corte suprema del popolo, il massimo organo giudiziario cinese, il 70 per cento delle dispute matrimoniali non consensuali (circa il 20 per cento del totale in larga parte di competenza del ministero degli Affari civili) è stato avviato dalla controparte femminile. Quella che – nonostante il progressivo abbattimento dei vecchi pregiudizi – continua a sostenere i costi sociali più onerosi di una separazione, con il rischio di discriminazioni sul lavoro e minori possibilità di rifarsi una vita sentimentale. Specie se con figli a carico. Circa il 78 per cento dei richiedenti divorzio ha citato l’incompatibilità come principale motivo di rottura.
Sebbene la prima legge matrimoniale voluta da Mao Zedong nel 1950 abbia sferrato un iniziale affondo contro il sistema patriarcale – da una parte riconoscendo pari diritti per entrambi i sessi dall’altra vietando i matrimoni combinati e le unioni forzate – è soltanto con l’emendamento del 1980 che il divorzio “senza colpa” diventa legalmente accettato. Da allora, il tasso di separazioni comincia a lievitare. Le prime a scoppiare sono quelle coppie urbano-rurali nate per convenienza ai tempi della “rieducazione” nelle campagne sperimentata dai giovani durante la Rivoluzione culturale. L’apertura della Cina al mondo, la vertiginosa crescita economica e la liberalizzazione sessuale d’importazione occidentale hanno velocizzato e ampliato l’estensione del fenomeno. Nel 2010 sulla stampa statale compare una nuova parola: shanhun: “matrimonio lampo”.
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.