Dalla Cina al Giappone, dalla penisola coreana al Sud-Est asiatico: l’impatto della guerra in Ucraina sull’Asia. Articolo pubblicato originariamente su Gariwo
Il suono delle bombe russe che continuano a cadere sull’Ucraina non si sente in Asia. Ma le scosse telluriche da esse provocate propagano le loro onde anche qui. Tutta la regione dell’Asia-Pacifico osserva con attenzione a quanto accade tra Kiev e Donbass. Dalla Cina al Giappone, dalla penisola coreana al Sud-Est asiatico, dall’India al Pacifico meridionale, fino ovviamente a Taiwan. Così come era già accaduto con la pandemia da Covid-19, il conflitto sta accelerando una serie di tendenze che erano già precedentemente in atto e che ora sembrano procedere su un piano ancora più inclinato.
Una di queste tendenze è quella del riarmo. In cima a questa fenomeno, come ovvio, c’è la Cina. Durante le “due sessioni” di marzo, il tradizionale appuntamento legislativo annuale della Repubblica Popolare, è stato annunciato un aumento del 7,1% rispetto allo scorso anno. Si tratta di un leggero aumento della rapidità della crescita rispetto agli ultimi anni. Nei due anni precedenti era stata del 6,6% e del 6,8%. Raggiunto il picco dei 230 miliardi di dollari totali di spesa. Numeri che dimostrano la volontà del nuovo timoniere Xi Jinping di navigare con forza le tempestose acque dell’anno della sua terza incoronazione. Ancor di più dopo l’esplosione del conflitto sul fianco orientale dell’Europa. Tanto che secondo immagini satellitari la Cina starebbe velocizzando il suo programma nucleare con l’utilizzo di diversi silos in località lontane dalle sue numerose metropoli. Obiettivo: aumentare la deterrenza nei confronti degli Stati Uniti e provare a scongiurare la volontà di Washington di intervenire direttamente se Pechino dovesse lanciare o restare invischiata in un confronto militare in uno dei numerosi teatri di disputa nelle quali è coinvolta.
I paesi della regione, abituati ai battibecchi territoriali con la Repubblica Popolare, hanno osservato con sgomento la decisione del Cremlino di invadere l’Ucraina. Il timore è che le maggiori potenze possano cercare di conquistare nuovi spazi a scapito dei paesi territorialmente più piccoli. Timore espresso in modo esplicito dal premier di Singapore Lee Hsien Loong. Non è dunque un caso che diversi paesi del Sud-Est stiano provando a rafforzare i loro eserciti, oppure a puntellare le loro alleanze in materia di difesa. Obiettivi già ben presenti nel decennio 2009-2018, durante il quale le spese militari della regione sono cresciute del 33% (percentuale più alta al mondo). Il caso più evidente è quello delle Filippine. Il presidente uscente Rodrigo Duterte (si voterà il 9 maggio e lui non ha potuto ricandidarsi) aveva operato uno storico avvicinamento a Pechino con tanto di minaccia di strappare il Visiting Forces Agreement con gli Usa. Minaccia mai realizzata. Anzi. Da quando è arrivato Joe Biden alla Casa Bianca i rapporti sono ripartiti, anche in concomitanza di nuove tensioni con la Cina per lo stazionamento di centinaia di imbarcazioni di Pechino in acque contese. Ed ecco allora che nelle scorse settimane sono state effettuate le esercitazioni militari congiunte Manila-Washington più estese di sempre.
Un caso ancora a parte è costituito dal Vietnam, le cui spese militari sono aumentati di quasi il 700% tra 2009 e 2018. Anche attraverso l’acquisto di armamenti russi. Uno degli elementi che spiega come mai Hanoi non abbia condannato l’invasione di Mosca e abbia votato contro la risoluzione per escluderla dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite. “Durante gli ultimi decenni siamo stati invasi da 4 dei 5 membri permanenti del Consiglio di sicurezza”, ripeteva un tempo l’ex ministro degli Esteri Nguyen Co Thach. Difficile che il “sentire” asiatico sia lo stesso di quello occidentale. Il Vietnam, secondo Derek Grossman di Rand Corporation, è tra l’altro l’esempio più simile all’Ucraina in Asia. Questo perché è esposto a rivendicazioni territoriali del gigante regionale, la Cina, e non ha partnership militari con gli Stati Uniti.
La guerra sta creando diverse pressioni anche sull’Indonesia, in particolare per la presidenza di turno del G20 che quest’anno spetta a Giacarta. Le pressioni americane per escludere la Russia dal summit di Bali sono altissime, per ora il presidente indonesiano Joko Widodo prova a resistere. Ma non sarà semplice.
C’è anche chi sta provando a sfruttare l’occasione fornita dal conflitto. Tra questi regimi come quello militare birmano e quello dei talebani, che sperano di giovarsi dalla distrazione globale su Kiev per cementare la loro presa. In entrambi i casi, la Cina potrebbe agire come elemento di stabilità e dunque portatore di certezze. Pechino sta governando il processo di stabilizzazione dell’Afghanistan post ritiro americano, come dimostra il recente vertice di Tunxi alla presenza dei paesi dell’Asia centrale, Russia, Iran, Pakistan e India. La stessa Cina vede dei pertugi importanti dove incunearsi per mostrare i punti oscuri dell’architettura indo pacifica degli Stati Uniti. Lo sta provando a fare per esempio in Cambogia o nelle Isole Salomone, con i quali ha firmato due accordi di sicurezza nelle ultime settimane. Ma anche con l’India, come dimostra il viaggio del ministro degli Esteri Wang Yi a Nuova Delhi, che ha rotto un gelo diplomatico che andava avanti dal giugno 2020 dopo gli scontri al confine conteso. Il paese guidato da Narendra Modi è rimasto finora neutrale sul conflitto, mettendo a nudo le lacune del Quad, quella piattaforma quadrilaterale Usa-Australia-Giappone-India che nei piani del Pentagono avrebbe dovuto diventare una Nato asiatica.
D’altro canto, Tokyo è sempre più esposta. Prima dell’inizio della pandemia, era in programma una visita di Xi che avrebbe dovuto rilanciare i rapporti bilaterali in una nuova era. Da lì in avanti è cambiato tutto, il virus ha svelato le reali dinamiche sottostanti. Shinzo Abe prima e Fumio Kishida poi (con l’intermezzo di Yoshihide Suga) sono diventati sempre più vocali nei confronti di Pechino, mentre le tensioni nel mar Cinese orientale intorno alle Senkaku/Diaoyu sono continuate ad aumentare. La decisione del Giappone nel seguire o addirittura guidare la partita delle sanzioni a Mosca ha aperto poi un fronte di tensione diretto con la Russia. Navi militari del Cremlino sono passate più di una volta nello stretto di Tsugaru, che separa le due isole principali dell’arcipelago giapponese. Nelle scorse settimane, subito dopo aver annunciato la rottura dei negoziati di pace sulle isole Curili, l’esercito di Mosca ha condotto esercitazioni militari con tremila uomini intorno all’arcipelago conteso.
Un altro fronte caldo è quello della penisola coreana. Già da gennaio la Corea del Nord ha aumentato il ritmo dei suoi test balistici e immagini satellitari mostrano la ripresa dei lavori nei tunnel nucleari dopo qualche anno di tregua. Il già flebile dialogo tra Pyongyang e Seul rischia di interrompersi del tutto con l’arrivo alla Casa Blu del presidente eletto Yoon Suk-yeol, che ha vinto le elezioni dello scorso 9 marzo. Conservatore, in campagna elettorale non aveva escluso un possibile attacco preventivo al Nord qualora ce ne fosse stato bisogno. Yoon ha già mostrato l’intenzione di riavviare i rapporti complicatissimi con il Giappone e vuole chiedere maggiore protezione militare da Washington. Fattore che potrebbe alzare le tensioni non solo con il regime di Kim Jong-un, ma anche con Pechino.
La guerra in Ucraina è geograficamente lontana, ma i suoi riverberi in Asia-Pacifico appaiono piuttosto vicini.
[Pubblicato su Gariwo]Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.