Dopo la rieducazione, le sentenze “retroattive”: oggi un uiguro su 26 si troverebbe in prigione, il tasso di incarcerazione più alto al mondo.
Diciassette anni di carcere. È la pena comminata il 31 agosto 2018 a Nurlan Pioner, residente della contea di Jimunai, nella regione autonoma dello Xinjiang, al confine tra la Cina e il Kazakistan. L’accusa è di aver “adunato una folla per disturbare l’ordine sociale”, oltre ad aver commesso reati quali l’“uso dell’estremismo per indebolire le forze dell’ordine”, e il “possesso illegale di oggetti che propagano l’estremismo e il terrorismo”. Si tratta di una sentenza inattesa, non solo perché l’uomo era una figura molto rispettata a Jimunai: un molla, ovvero un religioso incaricato dallo Stato di condurre rituali, come matrimoni e funerali, ma anche uno dei delegati dell’Assemblea popolare della contea, l’organo legislativo locale. I capi di imputazione sono collegati ad attività condotte molti anni prima che venissero ritenuti crimini.
L’anomalia emerge chiaramente dai dettagli contenuti in una copia cartacea del verdetto ufficiale consegnata alla famiglia e conservata da una parente fuggita in Kazakistan. Una delle poche prove scritte che attestano il coinvolgimento del sistema giudiziario nella campagna per la “rieducazione” delle minoranze islamiche dello Xinjiang, avviata nel 2017 con lo scopo conclamato di combattere le infiltrazioni del terrorismo internazionale. Nella deposizione gli avvocati d’ufficio del libraio uiguro Tokhti Silam, incriminato insieme a Pioner, affermano chiaramente che: “A giudicare dall’anno e un mese delle accuse penali, tutti i crimini commessi dall’imputato sono avvenuti tra il 1994 e il 1995 e tra il 2011 e il 2015. A quel tempo, le leggi e i regolamenti pertinenti non erano ancora stati promulgati e il lavoro di diffusione delle disposizioni legali non era ancora stato implementato. Pertanto, durante questo periodo c’era ancora una diffusa mancanza di consapevolezza sociale delle responsabilità legali. Ogni disposizione legale relativa a questo caso è stata annunciata e implementata dopo il 2015”. I “crimini” in questione spaziano dall’organizzazione di cerimonie tradizionali al possesso di libri in lingua uigura, spesso tradotti dall’arabo, come nel caso di una raccolta di frasi pronunciate da Maometto nella versione pubblicata dalla casa editrice statale dello Xinjiang nel 2005. Quindi approvata dal governo.
E quella di Pioner e Silam non è una storia isolata. Secondo quanto riporta Uyghur Human Rights Project nel rapporto “Twenty Years for Learning the Quran: Uyghur Women and Religious Persecution”, l’imposizione di sentenze “retroattive” ha colpito spesso donne anziane, talvolta per comportamenti mantenuti per pochissimo tempo quando erano appena delle bambine. È il caso di Ezizgul Memet, condannata a dieci anni di prigione per aver studiato illegalmente il Corano con sua madre per soli tre giorni intorno al febbraio 1976, quando aveva cinque o sei anni. Oggi settantenne, Patihan Imin si è invece vista comminare una pena di sei anni di reclusione per aver studiato le Scritture tra l’aprile e il maggio 1967, aver indossato il jilbab tra il 2005 e il 2014, e aver tenuto in casa un lettore elettronico del Corano.
Cosa ha spinto le autorità ad adottare il nuovo approccio? Secondo Darren Byler (che ha raccontato il caso di Pioner sul portale China File), il cambio di rotta avviene nel 2017 quando, per adeguarsi alle direttive di Pechino, le procure locali cominciano a concentrarsi sulla “prevenzione” e la “de-radicalizzazione”. Comportamenti fino a poco prima ritenuti innocui diventano così il sintomo di una permeabilità all’estremismo.
A partire da quell’anno, circa un decimo di tutti gli uiguri e i kazaki adulti presenti nella regione autonoma sono stati sottoposti a varie forme di detenzione: se in un primo momento le autorità hanno privilegiato la reclusione nei “centri per la rieducazione” e i fermi preventivi, dal 2018 in poi – anche in risposta alle preoccupazioni dell’occidente – si è assistito a una progressiva chiusura delle strutture extragiudiziali e al crescente impiego delle incarcerazioni di massa.
Secondo i dati diffusi dai tribunali locali e nazionali, tra il 2017 e il 2022 oltre 615.000 persone sono state formalmente perseguite nello Xinjiang. 220.000 solo nel primo anno, pari a un aumento del 437% rispetto al 2016. L’incremento è particolarmente consistente considerato che nel triennio precedente il totale dei procedimenti era stato in media di circa 41.700 all’anno. Tanto per avere un’idea, in tutta la Cina, nel 2017 i processi hanno coinvolto complessivamente 1.450.000 persone. Significa che lo Xinjiang (dove risiede appena l’1,8% della popolazione cinese), quell’anno ha contato per il 15% di tutti i procedimenti giudiziari a livello nazionale. Successivamente il bilancio ha evidenziato un trend in discesa, non tanto per via di una maggiore tolleranza delle autorità, quanto piuttosto – come spiega Byler – a causa del numero di persone già in stato di detenzione. Anche così, dal 2017 alla fine del 2022, il Xinjiang ha rappresentato il 6% dei procedimenti giudiziari in tutta la Cina.
Stando a un rapporto indipendente del Uyghur Human Right Project, oggi uno uiguro su 26 si troverebbe in prigione, il tasso di incarcerazione più alto al mondo. Da una comparazione tra i dati rilasciati dalla procura dello Xinjiang e quelli del Ministero della Giustizia cinese, risulta infatti che gli uiguri – assieme alle popolazioni turcofone – sono imprigionati con un rapporto di 3.814 su 100mila. 47 volte superiore a quello complessivo della Cina (80 su 100mila) e tre volte superiore a El Salvador che, come paese, detiene il valore mondiale più elevato (1.086 per 100mila). Nel 2022 le minoranze turcofone dietro le sbarre erano 578.500, un terzo della popolazione carceraria cinese.
Stando così le cose, non serve molta immaginazione per capire cosa intendeva il ministro della pubblica Sicurezza Chen Wenqing quando, visitando la regione autonoma a fine maggio, ha chiesto di “normalizzare le operazioni antiterrorismo” e “insistere nel reprimere i crimini terroristici in conformità con la legge”. Riportando le nuove direttive, il dicastero ha sottolineato come grazie alle politiche adottate nello Xinjiang in Cina non si verifichino attacchi jihadisti da oltre sette anni.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su Gariwo]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.