Si è parlato tanto del contenimento della pandemia da coronavirus in Cina, Corea del Sud, Taiwan e Singapore, anche se ora nella città-Stato i contagi sono in netto aumento. C’è però un altro paese che può rivendicare il successo della propria gestione epidemica. Si tratta del Vietnam, che dal 16 aprile non fa registrare nuovi casi di contagio, al momento ufficialmente fermi a un (bassissimo) totale di 268 e a zero morti.
Come accaduto per Taiwan, che ha comunque numeri più alti, il Vietnam ha saputo muoversi in prevenzione più che in contenimento. Ancora una volta, a incidere in maniera positiva il ricordo del trauma della Sars del 2003 e la profonda conoscenza della Cina. Mentre Europa e Stati Uniti sottovalutavano la portata della pandemia o pensavano potesse restare confinata a Wuhan, metropoli osservata da lontano un po’ come si assiste a un film distopico, in Asia orientale ci si è mossi immediatamente per fronteggiare la minaccia.
Il Vietnam è stato tra i primi paesi a bloccare i collegamenti aerei con la Cina, con la quale condivide anche un confine terrestre in corrispondenza delle province dello Yunnan e del Guangxi. Ma, a differenza che in Italia o in altre democrazie occidentali, la misura non è rimasta isolata. A restare isolati sono stati semmai i cittadini vietnamiti, sottoposti a una rigida politica di distanziamento sociale che ha fatto guadagnare tempo importante alle strutture sanitarie in vista di una possibile ondata epidemica.
Oltre 80 mila persone sono state sottoposte a isolamento, comprese quelle di rientro dall’estero. Non a casa, ma in strutture statali spesso controllate dai militari. Il basso numero di casi ha aiutato a individuare i luoghi dei contagi con velocità e operare quarantene e chiusure di interi quartieri o villaggi. L’aggressivo contact tracing è stato portato avanti non tanto grazie ad app e tecnologia, come invece accaduto in larga parte in Corea del Sud, ma soprattutto con la mobilitazione delle risorse umane.
Caratteristica, quest’ultima, che accomuna il Vietnam alla Cina. In entrambi i casi i partiti comunisti al potere hanno potuto contare su un controllo fisico capillare. Il tutto incrociato al comportamento virtuoso dei cittadini, risultato non solo o non tanto dalla presenza di un governo autoritario, ma anche e soprattutto da un mix di componenti storici e culturali.
L’esito è che il Vietnam sta lentamente passando alla cosiddetta “fase due“. Negozi e ristoranti stanno già iniziando a riaprire, mentre nei prossimi giorni si tornerà anche a scuola.
Sul fronte economico, come dappertutto, ci si aspettano contraccolpi importanti. L’industria del tessile, uno dei settori chiave dell’economia vietnamita, sta vivendo un vero e proprio crollo degli ordini. Il colosso Vinatex sta per licenziare la metà dei suoi dipendenti, circa 50 mila. E la crisi sanitaria sta avendo effetto su circa cinque milioni di lavoratori, tra perdita dell’occupazione e ferie forzate non pagate.
Eppure, il Fondo monetario internazionale prevede una crescita del 2,7 per cento nel 2020, nonostante la pandemia. Certo, un dato molto più basso del 7 per cento del 2019, ma non una débacle, con Hanoi che pare destinata a guidare le economie asiatiche in via di sviluppo. Questo anche per il riposizionamento di diverse linee produttive in uscita dalla Cina.
A proposito di Cina, i rapporti tra i due amici/nemici di lunga data continuano a essere altalenanti. Da una parte la pandemia ha portato allo sviluppo di una buona cooperazione in campo sanitario. Dall’altra, però, restano le irrisolte dispute territoriali in campo marittimo.
Forse proprio per fugare l’ipotesi di un contraccolpo pandemico sul fronte militare, la Cina ha intensificato le manovre nel Mar cinese meridionale. Pechino ha istituito i distretti di Nansha e Xisha, all’interno della città di Sansha sull’isola di Hainan, a poca distanza dalle coste vietnamite. A questi due distretti sono state assegnare porzioni marittime in corrispondenza delle isole Paracels e Spratly, entrando in conflitto con le rivendicazioni di Hanoi.
Il governo cinese ha anche difeso la denominazione di 80 isole contese. La reazione di Hanoi, che nel 2020 ha la guida di turno dell’Asean, non si è fatta attendere, con una protesta ufficiale recapitata alle Nazioni Unite. Negli ultimi mesi, il governo vietnamita ha adottato una linea maggiormente assertiva in merito alle dispute territoriali aperti con la Cina. Lo scorso ottobre, il presidente Nguyen Phu Trong, ha chiesto di prepararsi per “possibili opportunità e sfide” sulle acque contese. Le accuse di violazione territoriali si sono moltiplicate nel corso del 2019, in particolare dopo il passaggio della nave di ricognizione cinese Haiyang Dizhi 8 e la sua scorta armata alla Vanguard Reef (una scogliera controllata dal Vietnam ma rivendicata dalla Cina), attraverso un blocco del colosso russo Rosneft, partner delle esplorazioni di Hanoi nell’area.
La questione è rilevante, anche perché in discussione ci sono tutti gli equilibri geopolitici nell’area del Pacifico, compresi quelli tra le due superpotenze Stati Uniti e Cina. Nel frattempo, il Vietnam sta provando ad aumentare il proprio soft power a livello internazionale, come dimostra l’invio di aiuti sanitari che ha coinvolto anche l’Italia.
[Pubblicato su Affaritaliani]Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.