Il documentario che vi presentiamo ha avuto la sua prima al Far East Film Festival, solitamente un festival dedicato ai film di finzione asiatici, ma come gli organizzatori di Udine hanno voluto sottolineare, il lavoro di Leonardo Cinieri Lombroso è un’importante testimonianza di come si è mosso il cinema del sudest asiatico negli ultimi anni.
I quattro registi intervistati sono Eric Khoo, capostipite del cinema di Singapore, che con My Magic (2008) è stato nominato Palma d’oro a Cannes. Abbiamo Pen-Ek Ratanaruang, regista tailandese, nonostante sia considerato uno dei promotori della new-wave tailandese, ci stupisce, durante il documentario quando afferma "Non ho un vero scopo, se lo avessi, forse i miei film sarebbero migliori". Brillante Mendoza, filippino, ha ottenuto la Palma d’oro a Cannes nel 2009 con Kinatay, portando il suo paese all’attenzione di tutti, Brillante Mendoza ha cominciato con la pubblicità, ha girato il suo primo film a quarantacinque anni e oggi gestisce la Center Stage Production Garin Nugroho, rappresenta l’Indonesia, e le contraddizioni del suo paese, tra multi-etnia e violenza, il regista si lascia andare in una confessione personale per parlare del suo mondo.
Southeast Asian Cinema – When the rooster crows ci conduce in un mondo semi sconosciuto, il classico strumento dell’intervista è funzionale in questo film, in maniera suggestiva, invece, ci addentriamo nei vari luoghi di nascita e di produzione protagonisti, luoghi diversi ma accomunati da qualcosa, forse l’unico interrogativo del film lasciato inesplorato. Saranno gli spettatori a trovare la risposta.
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Puoi raccontarci brevemente come nasce e come si sta evolvendo il tuo legame con l’Asia in generale, inteso come continente cinematografico da cui attingere e condividere?
Il mio legame con L’Asia nasce dalla mia nascita. Mia madre frequentava una sua amica che era sposata con un giapponese ed aveva un bambino di un anno. Così appena nato, il mio compagno di giochi era Yri e poi anche la sua sorellina più tardi. E siamo tutt’ora amici. Forse questo ha influenzato le mie scelte da grande. Nel 2006 lavorando per il Festival di Roma come selezionatore alla sezione Alice nella Città, mi sono accorto di come il cinema mondiale si evolveva e come la Corea già da svariati anni era sulla sua wave. Nel 2008 decido di andare a conoscere chi erano questi registi coreani. Nel 2010 il mio documentario Through Korean Cinema viene presentato al Festival di Busan. Questa prima esperienza in Asia mi segna molto, perché sì è stato un incontro con il loro cinema ma è anche stato un incontro umano molto bello. La scoperta di un pensiero diverso.
I cinque registi che ho intervistato mi hanno trasmesso con sincerità quello che erano ed i loro punti di vista attraverso il loro cinema. Da lì la mia curiosità si è raddoppiata e mi sono spostato nel Sud Est Asia. Un territorio completamento diverso dall’Asia dell’est. E qui nasce il mio ultimo documentario Southeast Asian Cinema – When the rooster crows. Piano Piano mi sto immergendo sempre più in un cinema diverso, ricco di idee, denso di simbolismi, di poesia, di violenza e di contraddizioni, che spesso riesce a cogliere diversamente l’essenza della vita. Ed è bello attingere da questi film soprattutto per un occidentale, per scoprire qualcosa di differente, di distante ma anche di qualcosa vicino a noi. Come per un asiatico è bello vedere il nostro cinema. Siamo diversi e questa diversità arricchisce entrambi.
Cosa ti ha colpito, oltre ai premi a livello internazionale, dei quattro registi intervistati per il tuo documentario When the rooster crows, Southeast Asian Cinema?
Mi ha colpito la loro forza di voler dire altro, di mettersi come all’esterno della loro società per vedere meglio e mettere a fuoco quello che andava messo a fuoco. E sono riusciti a creare un cinema unico ma mettendo in gioco, alcuni di loro, anche la propria vita. Quando si inizia qualcosa di nuovo è sempre un rischio perché non ci sarà mai nessuno a dirti che è la scelta giusta. E loro ci si sono buttati in quello che credevano con tutti i rischi che comportavano e ora sono quello che sono.
Ci sono state altre figure significative nel cinema del Sud est asiatico che non hai potuto includere nel film? Se sì, perché? Come hai selezionato i quattro registi?
Sì ci sono persone significative, registi molto importanti che non ho messo, anche della nuova generazione. Ma io volevo parlare con questo documentario alla gente normale e non ad esperti di cinema. E per chi non sa o sa poco ha bisogno di comprendere le basi di questo cinema. Per questo il mio documentario è un’introduzione al cinema del sudest asiatico. È una base per informare e per incuriosire.
Per me questi quattro registi sono i propulsori della rinascita di questo cinema e grazie a loro riusciamo a capire la storia di questi paesi, le ferite, le tirannie, le violenze che hanno subito. Loro sono stati testimoni del passato e del presente, a cavallo tra due generazioni. Per quello dico che mi ha impressionato la loro forza, solitaria, di ricreare dal nulla qualcosa di vivo, forte, con una volontà ben precisa senza sapere dove sarebbero andati, almeno all’inizio dei loro primi film. Ed ora sono diventati dei punti di riferimento e penso che grazie a loro oggi abbiamo questo fermento di giovani registi e l’emergere del cinema del sudest Asiatico.
Puoi descrivere brevemente le diversità che caratterizzano il cinema dei tuoi interlocutori? E cosa invece li accomuna?
La diversità dei quattro protagonisti è dovuta dalla storia dei loro paesi, dalle diverse religioni.
Eric Khoo racconta la ricca e potete Singapore dalle case popolari con protagonisti le persone semplici e loro problemi.
Pen Ek Ratanaruang riesce a mescolare il cinema tradizionale tailandese con il cinema americano ed europeo creando visioni, illusioni del personaggio perdendo il senso narrativo della storia.
Garin Nugroho va alla ricerca dei dialetti, della tradizione e racconta la diversità e la ricchezza culturale dell’Indonesia.Brillante Mendoza crea il suo stile ultra-neoralistico creando un linguaggio tutto suo tra la realtà e la finzione. La cosa che li accomuna è l’essere unici. Tutti e quattro rivoluzionari del cinema nel loro paese.
Puoi raccontarci un aneddoto che ti ha insegnato molto, dal punto di vista professionale, durante le riprese del documentario?
Questi lavori mi insegnano a prendere quello che arriva durante il mio cammino di produzione, ma nello stesso tempo a cercare con la telecamera quello che mi serve senza essere cosciente di quello che registrerò. Faccio un esempio che mi è successo a Jakarta. Aveva appena spesso di piovere e camminavo in piccole stradine piene di pozzanghere. Motorini, becak e macchine cercavano di passare. Mi trovo ad attraversare un ponte sopra una canale che era quasi ricoperto dalle buste della spazzatura ed un uomo con una barchetta controllava cosa c’era all’interno dei sacchetti.
Arrivo in un piccolo villaggio di casette e mentre cammino all’interno finisco su un altro ponte e lì come se avessi un appuntamento, mi aspettava un vecchio signore che appena mi vide mi indicò la sua piccola barca e mi fece capire che con pochi soldi mi avrebbe portato a fare un giro turistico nel porto industriale di Jakarta. “Perché no!” Salto sulla barchetta e lui inizia a remare. Era l’ora del tramonto, le moschee iniziano il Magrhib, la preghiera della sera. Ed ecco la magia davanti a me. Io ero con la mia telecamera ed il cavalletto che registravo il signore che remava, le grandi navi alle sue spalle, piccole barchette di pescatori che ritornavano al porto ed il suono della preghiera. Come avrei mai potuto programmare tutto ciò?
Sappiamo che hai concluso un altro lavoro, Doris & Hong, un simpatico incontro tra Cina e Italia, puoi brevemente raccontarci le fasi di questo lavoro?
Hong èuna ragazza cinese di 23 anni, soffocata dagli obblighi del suo paese decidere di venire a Roma a studiare arte. Tramite un annuncio sul web va a vivere da Doris una signora di 72 anni. Nasce un’amicizia al di fuori della differenza d’età e di cultura. Dopo circa due anni di convivenza la ragazza cinese deve tornare in Cina e invita la signora a partire con lei. L’arrivo in Cina mette di nuovo in crisi Hong che la metterà di fronte ad una scelta importante.
Doris era la mamma di una mia amica ed un giorno mi invita a cena a casa sua con sua figlia ed alcuni amici e ci presenta Hong. Mi è subito parsa una combinazione interessante, buffa e bella. Così dopo averci pensato un po’, sono andato da loro a chiedergli se potevo seguirle con la mia telecamera nelle loro vite e vedere se riuscivamo a fare un documentario. E così è stato! Nel momento che Hong decise di invitare Doris in Cina a Dalian a conoscere la sua famiglia, organizzai due campagne di crowdfunding per raggiungere la somma necessaria per il viaggio. Ora il documentario è finito e lo stiamo iscrivendo a diversi festival.
Alcuni consigli per i giovani documentaristi italiani: cosa serve per riuscire a sopravvivere in Italia?
Prima di tutto bisogna capire che tipo di documentario si vuole fare. Totalmente indipendente? Commerciale per la tv? Una via di mezzo? Il documentario ora in Italia, ma anche nel mondo, sta sempre più prendendo forza, sta diventando un’alternativa al cinema di finzione, perché il documentario sta sperimentando nuovi linguaggi di narrazione. Io consiglio sempre di vedere quello che fanno gli altri nel mondo e non solo in Italia. Bisogna trovare un modo che il documentario abbia una distribuzione pari al film di finzione. Distribuzione nei cinema e in Tv.
Per sopravvivere bisogna fare e trovare soluzioni. Non posso dirvi cosa fare esattamente perché non lo so neanche io. E’ un mercato nuovo che si sta formando ed è ancora difficile capire la direzione, ma se pensate ai quattro registi del mio documentario che hanno iniziato sotto tirannia in un momento dove il cinema non esisteva più.