La Cina si oppone alle influenze straniere nella crisi venezuelana. Lo ha dichiarato la portavoce del ministero degli Esteri cinese a stretto giro dall’autonomina a presidente ad interim del capo dell’opposizione venezuelana Juan Guaido. Letteralmente: “prestiamo molta attenzione all’attuale situazione in Venezuela e invitiamo tutte le parti alla razionalità e alla calma per cercare una soluzione politica attraverso un dialogo pacifico all’interno del quadro costituzionale venezuelano”.
L’approccio cinese si discosta nettamente dall’endorsement di Washington e delle potenze regionali al nuovo Esecutivo. Mentre il monito delle autorità di Pechino rispecchia il nucleo fondante della politica estera cinese – la non ingerenza negli affari interni degli altri paesi auspicata specularmente in riferimento alla sovranità cinese su Tibet, Taiwan, Hong Kong e Mar cinese meridionale – la stabilità di Caracas sta particolarmente a cuore alla leadership di Xi Jinping. Negli ultimi dieci anni, calcoli economici e geopolitici hanno spinto Pechino a prestare al paese sudamericano 62 miliardi di dollari in cambio di petrolio, il 53% di quanto elargito all’intera America Latina. Tanto che oggi la Repubblica popolare è il primo creditore del regime di Nicolas Maduro, contando per 26 miliardi del debito estero accumulato dal Venezuela. Ma la crisi finanziaria innescata dal crollo dei prezzi del petrolio ha sfilacciato le relazioni bilaterali, nonostante il reiterato sostegno da parte di Pechino.
Secondo la Reuters, tre anni fa, la richiesta di una revisione dei termini di pagamento ha indotto il governo cinese a ridurre drasticamente il proprio supporto finanziario al paese. Lo scorso settembre, in occasione dell’ultima trasferta di Maduro oltre la Muraglia, l’amministrazione Xi Jinping ha ribadito il proprio aiuto nella risoluzione della crisi, ricevendo in cambio un’ulteriore quota del 9,9% nella joint venture Sinovensa. Tuttavia, l’assenza di dettagli sulla presunta erogazione di nuovi fondi – preannunciata in pompa magna dal ministero delle Finanze venezuelano nei mesi precedenti – è parsa confermare la crescente diffidenza cinese.
Difficilmente la fedeltà ideologica riaffermata con il pellegrinaggio di Maduro presso il mausoleo di Mao Zedong in piazza Tian’anmen basterà a dissipare le preoccupazioni di natura finanziaria. Mentre la fratellanza comunista con il regime di Caracas ha continuato a fungere da lubrificante per le relazioni bilaterali, in tempi di Nuova Via della Seta la sostenibilità economica dell’attivismo cinese oltreconfine è diventata una priorità per Pechino. Tanto più che la crescita nazionale rallenta. Sono altre le considerazioni che spingono la Cina a ostacolare un cambio di governo nel paese sudamericano.
A pochi giorni dall’ufficializzazione di Jair Bolsonaro alla guida del Brasile, primo partner commerciale regionale del gigante asiatico, gli smottamenti in Venezuela rischiano di complicare non poco la strategia di Pechino in America Latina. Mentre la retorica anticinesi sfoderata da Bolsonaro in campagna elettorale è ormai un ricordo lontano, un’amministrazione filoamericana a Caracas potrebbe intralciare il presenzialismo cinese nella regione, cementato negli ultimi anni grazie all’istituzione di rapporti diplomatici con gli ex alleati di Taiwan El Slavador, Panama e la Repubblica Domenicana.
Dando voce ai timori di Pechino, il tabloid semiufficiale Global Times ha messo in risalto come “per molto tempo, gli Stati Uniti hanno cercato di sostituire la legge internazionale con i propri interessi e valori geopolitici in modo da legalizzare le proprie interferenze”. Ma quando parla di “interferenze” la Cina, evidentemente, attribuisce al termine un significato tutto suo.
D’altronde, il confine che separa la sfera economica da quella politica è quantomai sfumato. Lo dimostra una recente inchiesta della Reuters, secondo la quale l’azienda cinese ZTE da anni starebbe aiutando Caracas a istallare un sistema di controllo sociale digitale. Stando al report, il colosso tecnologico – sanzionato temporaneamente dagli Stati Uniti lo scorso anno – avrebbe aiutato il governo venezuelano a costruire un network digitalizzato di carte d’identità per i cittadini venezuelani in chiave securitaria. Il programma, cominciato sotto Hugo Chávez e rilanciato da Maduro, avrebbe dato a Caracas l’accesso a un database dei comportamenti politici, sociali ed economici dei propri cittadini. La penetrazione cinese nel paese sarebbe confermata dall’inserimento di un gruppo di dipendenti di ZTE in un’unità speciale all’interno di Cantv, la compagnia statale venezuelana delle telecomunicazioni preposta alla gestione della banca dati. Per la Reuters, il sistema avrebbe trovato impiego durante le elezioni di maggio nel tentativo di controllare i voti.
[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.