Tre.
Molti saranno gli argomenti di difesa che utilizzeranno le aziende digitali per scampare la spada di Damocle che pende sulla loro testa. Uno degli elementi che gli avvocati e gli amministratori delegati utilizzeranno nelle arringhe, sarà perimetrare il cosiddetto mercato rilevante, quello che conta per l’applicazione dell’antitrust. Gli avvocati diranno che ogni piattaforma non opera in uno specifico settore, sia essa la ricerca, i social network, l’e-commerce o il mercato delle applicazioni, ma naviga in un oceano rosso assai più vasto: quello in cui competono tutte le techno-corporation, l’oceano rosso del mercato digitale. Un mercato ampio, pieno zeppo di concorrenti. La pubblicità online, per dirne una, vede oggi tre grandi soggetti: Google, Facebook e Amazon. La concorrenza esiste, questa sarebbe la difesa, ed è agguerrita, perché investe un settore che va osservato con obiettivi dalla focale più ampia.
Ma la Silicon Valley potrebbe anche avanzare un ragionamento differente, proporre una difesa che ha un sapore più politico e che allarga ulteriormente i confini del cosiddetto mercato rilevante.
La competizione nel settore dei servizi digitali, questa potrebbe essere la tesi, non va misurata su scala nazionale ma globale. La competizione per le techno-corporation interessa il pianeta: miliardi di utenti nel mondo, centinaia di aziende, il mercato statunitense è una dimensione geografica, politica e soprattutto giuridica superata; e dunque così antiquato sarebbe qualunque ragionamento che proceda in base a valutazioni di natura territoriale, che insomma giri attorno ai confini nazionali.
Le piattaforme hanno abbattuto quei confini, per questo possono essere interpretate come meta-nazioni digitali. E il territorio su cui estendono il loro dominio, ad oggi, è tutto il territorio del pianeta, a eccezione di Stati in cui la loro presenza è vietata.
Poche aziende rispettano la definizione di meta-nazione digitale come Google, Facebook, Amazon o Apple, ma anche Airbnb, Spotify, Netflix.
Proprio perché il cuore di questi conglomerati digitali è la formula – l’algoritmo – di cui abbiamo già detto, le techno-corporation possono essere presenti e operare, e guadagnare, in quasi tutti gli Stati rappresentati alle Nazioni Unite, con sedi locali, uffici di rappresentanza, budget dedicati alle pubbliche relazioni, lobbisti e un certo numero di dipendenti.
In ogni caso Google non può davvero considerare Bing – cioè il motore di ricerca della Microsoft – come un suo concorrente. Non lo è nella mente delle persone e non lo è, in primo luogo, nei numeri: il raffronto risulta impietoso, il 92,78% delle ricerche contro il 2,55%.
Qual è allora il vero competitore dell’azienda di Mountain View? Se si esclude la presenza più politica, sovranista potremmo dire, del motore russo Yandex, l’unico potenziale concorrente di Google è il motore di ricerca cinese Baidu che oggi possiede una quota di mercato globale per ora insignificante, pari allo 0,9%, cifra che equivale alle ricerche dei cinesi in Cina, in mandarino. Impostazione predefinita: ad oggi sul motore di ricerca cinese l’opzione per poterlo utilizzare in una lingua occidentale non compare. Come sapete non si può utilizzare Google in Cina, ma non sta scritto da nessuna parte che non possa accadere il contrario. E cioè nessuno può escludere che a partire da domani Baidu decida di sbarcare in occidente, di fare concorrenza a Google.
Cosa accadrebbe se il motore di ricerca cinese decidesse di competere sullo scacchiere digitale globale, partendo magari da quei paesi che sono, dal punto di vista geopolitico, nello spazio di influenza cinese? Servirebbero investimenti enormi, uno sforzo comunicativo e di advertising mostruoso ma non impossibile per le tasche di una delle più importanti aziende di Intelligenza artificiale del pianeta. Potrebbe Baidu, ad esempio, cominciare a sviluppare una propria versione in inglese, o nelle lingue dei paesi dall’Africa sub sahariana là dove la presenza cinese è sempre più radicata, in termini commerciali, di investimenti e di aziende. Un’espansione di questo genere potrebbe essere il complemento naturale e digitale dell’attivismo cinese negli altri settori. Un simile scenario è uno scenario che oggi non ha alcun orizzonte di realtà ma non possiamo definirlo irrealizzabile. Dipende solo dalla valutazione degli interessi strategici cinesi. Se qualche elemento che definisce questi interessi varia, o se qualche elemento muta le carte in tavola rispetto alla competizione globale, anche lo scenario complessivo potrebbe cambiare. E capite bene che una Google smembrata, sarebbe un cavallo zoppo nella sfida globale tra i due motori di ricerca, un cavallo senza possibilità di correre, figuriamoci di vincere.
Allo stesso modo l’unico reale competitore di Facebook è rappresentato da WeChat, il social network totale, anch’esso cinese. WeChat è una vera piattaforma integrata che assomma sistemi e funzioni differenti, non solo relazioni tra persone, e quindi messaggi e post, ma anche pubblicità, notizie, pagamenti per l’acquisto di beni e servizi, dalla cena alla visita medica, dal taxi alla vacanza. Una matrioska digitale in cui l’applicazione madre contiene e integra svariate applicazioni figlie. WeChat rappresenta una sintesi perfetta, efficiente, molto facile da utilizzare; un livello di integrazione, tra servizi differenti, che a Menlo Park, sede di Facebook, sognano.
WeChat conta oggi 1 miliardo di utenti, è controllato da Tencent, conglomerato cinese con sede a Shenzhen, nato nel 1998, lo stesso anno di Google. Si tratta di un gruppo da oltre 40 miliardi di dollari di fatturato, che compare al 10° posto nella classifica per capitalizzazione di mercato redatta da Bond per il Rapporto Internet Trend 2019. Tencent produce tecnologia, servizi, giochi elettronici e sviluppa intelligenza artificiale. Insomma un’azienda che non avrebbe particolari problemi se decidesse, con il necessario sostegno del governo cinese, di crescere e allargarsi in altre zone del mondo. Se accadesse davvero, comparirebbe per Facebook il primo vero, serio, pericoloso, competitore globale.
La comparsa sulla scena di TikTok, social network centrato sui video brevi che sta spopolando tra i più giovani, sarebbe a quel punto una specie di antipasto, una prova generale. Eppure TikTok ha già terrorizzato letteralmente l’ecosistema dei social network che fino ad oggi è stata una riserva di caccia di Zuckerberg. E non solo il capo di Facebook appare preoccupato: secondo alcune anticipazioni Google starebbe valutando l’acquisizione di Firework, un’app molto simile. In Cina l’applicazione si chiama Douyin ed è posseduta da Byte-Dance che potrebbe quotarsi a Hong Kong l’anno prossimo con una valutazione che si aggira intorno ai 75 miliardi di dollari.
Amazon allo stesso modo deve già oggi confrontarsi con la potenza di AliBaba Group, e quindi anche delle controllata AliExpress e AliPay. Il conglomerato fondato da Jack Ma non rappresenta soltanto una piattaforma di e-commerce globale ma anche un sistema di pagamenti molto efficiente e utilizzato in Cina, e un fornitore di servizi cloud.
Nell’e-commerce AliBaba sta provando da tempo a uscire dai confini nazionali, e non smetterà di farlo. L’azienda è sbarcata in Sud Est Asiatico, a Singapore e in Vietnam, attraverso la sua controllata Lazada. L’esperimento ha però mostrato, da subito, alcuni limiti nella capacità espansiva: limiti culturali, di comunicazione, di adattamento. Nei paesi in cui è presente ha imposto un modello organizzativo e una cultura aziendale tipicamente cinesi, che non hanno tenuto conto delle specificità del singolo paese. E tutto questo ha generato problemi di inserimento che non sono ancora stati superati.
Se da un lato l’espansionismo in ambito tecnologico non equivale ad aprire sedi, spostare manager fidati e copiare processi di vendita, ma investe differenti fattori, per lo più, attinenti alla capacità di sedurre un intero mercato; dall’altro pensiamo alla pena delle techno-corporation americane che osservano terrorizzate le mosse dei competitori cinesi, mentre sono alle prese con la spada di Damocle maneggiata dai procuratori di cui si diceva in apertura. Una scena da film dell’orrore, in cui un cattivo entra in casa, mentre la vittima è immobilizzata e imbavagliata da un altro cattivo, e l’unica cosa che può fare la vittima è sospirare e spalancare gli occhi: non può reagire e nemmeno fuggire, e soprattutto non può capire quale sia il più cattivo tra i due cattivi.
Partiamo da una considerazione: per quanti problemi abbiano causato all’America, le techno-corporation le aziende californiane giocano un ruolo globale, e tutte in un certo modo esprimono una qualche forma di potere (soft o hard è da vedere) e una qualche forma di influenza a stelle e strisce. Il prodotto che arriva dalla Silicon Valley è un prodotto americano. Per essere precisi si tratta di un prodotto californiano impregnato del vento di libertà che spira su quella sponda del Pacifico. Un prodotto che, a una lettura superficiale, è stato raccontato come la leva che ha sollevato le popolazioni della Primavera araba, e la fionda digitale dei Davide di Hong Kong contro il Golia di Pechino.
La seconda considerazione è che l’influenza delle techno-corporation non è stata pregiudicata dalle ripetute crisi reputazionali che le hanno colpite.
Gli effetti di Amazon sul commercio al dettaglio solo adesso iniziano a essere misurati. Facebook va considerata come una specie di Vaso di Pandora digitale e temporizzato. Ogni tanto si scoperchia ed escono fuori comportamenti illeciti, discutibili: da Cambridge Analytica ai problemi in Myanmar, dai file audio ascoltati e trascritti (per la verità quasi tutte lo fanno) a enormi database di numeri di telefono di utenti lasciati alla mercé di chiunque. Il sentiero delle disavventure di Facebook è colmo di voragini reputazionali. Anche Google è stato multato – 170 milioni – per il mancato rispetto, da parte di YouTube, di norme sulla privacy dei bambini. Ed è incappato in una pessima vicenda di molestie sessuali. L’elenco potrebbe continuare.
Eppure di fronte a queste crisi il business delle techno-corporation – per adesso – non conosce intoppi.
I consumatori continuano ad acquistare su Amazon e le aziende, in tutto il mondo, continuano ad affidarsi sia a Facebook che a Google per la pubblicità, investendo sempre di più, tanto che la pubblicità online ha superato negli Stati Uniti quella sui media tradizionali. E se le aziende si affidano alle inserzioni sul motore di ricerca e sul social network è perché entrambe incarnano, con modalità differenti, una sorta di Santo Graal pubblicitario. Ovvero uno strumento che unisce audience immense a una precisione nell’individuazione dei pubblici che non ha pari nella storia della pubblicità. Non abbiamo assistito a nessun contraccolpo tecnologico: le persone non sono uscite dai social network, non hanno cambiato le loro abitudini, hanno acquistato milioni di esemplari degli assistenti domestici come Alexa o Google Home e continuano a parlare con Siri.
Nonostante quanto accaduto nell’ultimo anno e mezzo, insomma, Facebook, Google, Amazon, Apple e anche Microsoft, non hanno smesso di crescere e di espandersi; a differenza delle omologhe cinesi hanno già avuto successo all’estero e hanno esportato un modello di capitalismo che ha rivoluzionato il presente. Ed è un modello americano.
Insomma se le autorità statunitensi intendessero salvare questo modello di capitalismo a stelle e strisce dovrebbero limitarsi a colpire le techno-corporation con multe, per quanto salate. Un salvataggio presuppone una valutazione positiva del loro valore sistemico, di quanto esse rappresentano a vario titolo l’interesse nazionale; una valutazione che quindi costituirebbe la ragione – non giuridica – delle pronunce dei procuratori dei diversi stati e anche delle autorità indipendenti, e naturalmente del Dipartimento di Giustizia.
Il ragionamento che potrebbe stare dietro a questo genere di valutazione sistemica, come in parte già sottolineato, comporterebbe che la concorrenza nello spazio digitale sai da considerarsi globale per definizione, e che il mercato rilevante, da prendere in esame per capire se le regole sono state violate, possa essere il mondo intero. Limitarsi alla valutazione dei rischi per il solo mercato statunitense e quindi arrivare a sanzioni più pesanti, magari avrebbe anche un senso giuridico, ma potrebbe trasformarsi nell’occasione per le piattaforme rivali cinesi di sfidare le omologhe americane con un vantaggio competitivo fin qui insperato. E cioè quello di vedere i giganti americani alle prese con pericoli e con rischi di smembramento che arrivano da dentro casa. Il tutto mentre le aziende americane e cinesi si stanno sfidando, con l’handicap delle sanzioni e dei dazi, nel settore digitale e in molti altri ambiti.
Se, come scrive Foreign Affaris, “la tecnologia rimarrà al centro delle tensioni tra Stati Uniti e Cina ben oltre la fine dell’attuale guerra commerciale”, occorre adesso capire se la valanga di azioni giudiziarie contro la Silicon Valley sposterà l’asse di questo conflitto a danno delle techno-corporation americane e a vantaggio di quelle cinesi.
Senza dimenticare che sanzioni pesanti contro queste aziende, paradossalmente, rappresenterebbero l’ennesima manifestazione di quella “territorializzazione di Internet” che negli ultimi anni sta prendendo piede. In maniera differente dalla Russia e dall’Iran, dalla Cina e dalla Corea del Nord, da altre forme proterve di sovranismo digitale, si arriverebbe allo stesso effetto: ridurre la portata e il raggio d’azione di attori che sono stati fin qui globali e che hanno rafforzato la dimensione di Villaggio globale del web, immaginando la rete sempre più come un cortile di casa da amministrare all’interno dei confini politici, da chiudere o aprire, da limitare all’occorrenza. In questo caso le ragioni, rispetto agli intenti degli autocrati che alzano mura digitali, sarebbero altre, tuttavia l’effetto sarebbe più o meno simile.
Pechino sta investendo, e non da oggi, su una lunga marcia verso la supremazia tecnologica, che risale ai tempi del primo e fallimentare “balzo in avanti” di Mao, proseguita con Deng Xiaoping e finalizzata dalle ultime due generazioni di leader cinesi.
Stiamo assistendo da tempo a uno scontro che investe naturalmente anche l’ambito militare e molti altri settori altrettanto essenziali (come le telecomunicazioni, si pensi alle molteplici valenze che ha il 5G), settori che hanno un peso strategico per entrambi gli attori. Le tecnologie che utilizzano Google, Facebook, Amazon e Apple non hanno sempre e necessariamente risvolti che attengono alla sicurezza nazionale, tuttavia le grandi aziende dalla Silicon Valley incidono molto sul budget complessivo che le aziende americane destinano a ricerca e sviluppo in questo settore; inoltre esse rappresentano un esempio plastico della supremazia tecnologica americana che fino ad oggi non è mai stata in discussione. Fino ad oggi, ma non per sempre. Colpirle significherebbe colpire la sostanza di questa supremazia, e colpirne anche un simbolo.
La storia della relazione tra techno-corporation e il Dipartimento della Difesa e di quello alla sicurezza interna, è la storia di una relazione di inevitabile interdipendenza, di mutuo interesse, ed è anche una relazione complicata, nervosa, che ha subito scossoni nel tempo. Una relazione ancora da esplorare dopo che le rivelazioni di Edward Snowden hanno mostrato le cointeressenze tra governo e Silicon Valley in colossali operazioni di controllo e sorveglianza globale. Da quell’episodio molto è cambiato, in peggio potremmo dire, tra i protagonisti di questa complicata e altalenante relazione.
Snowden ha rivelato, oltre ai comportamenti del suo governo, anche la mistificazione costruita intorno alle virtù salvifiche della tecnologia e del digitale; tecnologia e digitale impugnati come vessilli di libertà dalle aziende californiane, si erano trasformati – nel tempo – in strumenti di sorveglianza planetaria grazie alla complicità, all’arrendevolezza, alla compiacenza, di chi un tempo si dipingeva come l’eroe che avrebbe salvato l’umanità da un nuovo Grande Fratello. La Silicon Valley non poteva ammettere con se stessa, con i propri utenti e clienti, che fosse stata messa a un guinzaglio corto e stretto da parte del Pentagono, eppure è ciò che è accaduto. E ha cercato di divincolarsi (si pensi al comportamento di Apple nella vicenda dell’iPhone del terrorista di San Bernardino).
Ma le stesse techno-corporation, alla prova dei fatti, hanno dimostrato di non essere state in grado di difendersi, negli Stati Uniti e altrove, per respingere attacchi esterni, pianificati in maniera meticolosa sul proprio suolo digitale, e quindi di non essere state in grado di reagire alle interferenze russe e di altre nazioni. Certificando, in un certo senso, la dipendenza dal Pentagono quando il gioco si fa più duro.
Quale che sia adesso la temperatura di questa relazione, e senza scomodare ipotesi complottiste, sembra assolutamente plausibile che esista un particolare interesse, da parte delle agenzie di sicurezza federali, per tutto quello che passa nei server delle techno-corporation. Interesse strategico potremmo definirlo. Interesse che concorrerebbe ad alimentare la valutazione circa un interesse di sistema per la sopravvivenza delle piattaforme digitali così come sono.
Nessuno si sognerebbe mai, in ogni caso, di procedere a uno spezzatino per aziende che possiedono un valore strategico per gli Stati Uniti. Non sarebbe nemmeno immaginabile per una Lockheed Martin o una General Electric. Perché dovrebbe essere fatto per Facebook o Google? Sono così macroscopiche le differenze? Siamo certi che il paragone non farà piacere a chi pensa di essere figlio della controcultura californiana e della libertà che si respira nella fornace di Burning Man.
Quale che sia l’analisi più onesta, resta che le decisioni del gruppo di procuratori statali e indipendenti si rifletteranno anche su questi ambiti.
[Qui per leggere il longform integrale]Di Nicola Zamperini*
**Nicola Zamperini (@nicolazamperini), giornalista professionista, autore per Castelvecchi di Manuale di disobbedienza digitale, consulente di comunicazione digitale per imprese e istituzioni. Contatti: www.nicolazamperini.com