A tratti, camminando per Innoway, la via dove covano i sogni delle start-up cinesi più cool del momento, pare di essere all’inizio del film Vanilla Sky.
Un silenzio ovattato governa questa strada – un tempo occupata per lo più da negozi di libri – mentre giovanissimi la percorrono con gli occhi fissi sul cellulare. Innoway ammicca all’atmosfera geek e informale della Silicon Valley americana, richiamata dalle atmosfere del Garage Cafè, ormai diventato «vintage» rispetto alle tante altre caffetterie nate negli ultimi due anni, ma ha evidenti «caratteristiche cinesi»: come nel resto di Pechino non c’è spazio per il cash, si fa tutto con WeChat, compresa la carica dei cellulari, così come la connessione Wi-Fi si ottiene attraverso la lettura del Qr code con la regina madre di tutte le app cinesi.
Dream Laboratory, si legge all’ingresso di un palazzo; di fronte c’è un ufficio su cui svetta il logo Microsoft. Poco distante c’è la sede di Tencent. Attraversando la strada si trova il primo dei vari schermi che mostra tutti i poteri del riconoscimento facciale applicati al traffico e in grado di segnalare immediatamente chi sgarra. Una scena che fa tanto Rivoluzione culturale ai nostri occhi occidentali ma che oggi come oggi viene percepito in tutt’altro modo dai cinesi.
Sulla Innoway si trovano robot, sistemi di riconoscimento facciale per i distributori di snack, sensori, videocamere intelligenti, assistenti vocali in grado di reggere una conversazione umana (Xiaomi, ormai un gigante nel mercato degli smartphone e che ha scommesso sull’intelligenza artificiale, ne ha prodotto uno, già due anni fa, e si dice sia sorprendente).
È QUANTO È PIÙ nascosto all’interno degli uffici di Innoway, però, che costituisce la vera ricchezza di questa strada di poco più di duecento metri, ovvero il lavoro incessante di creazione e perfezionamento (e debunking costante) di tutte quelle applicazioni capaci di irrompere sul mercato e consentire alla Cina nuove potenzialità in termini di smart city e processi industriali.
Qui si sperimentano gli algoritmi capaci di automatizzare le fabbriche, di far funzionare i veicoli a guida autonoma (specie a livello di gestione di logistica complessa o di trasporto pubblico o per grandi distanze), sistemi di sorveglianza capaci di regolare il traffico cittadino (e naturalmente di controllare il transito degli abitanti in ogni minimo particolare).
Pechino ha in mente, da tempo, una nuova città rivoluzionaria in un’area poco distante dalla capitale, Xiongan. Ed è voluta fortemente da Xi Jinping in persona. Anche in questa via si cercano soluzioni per le città cinesi del futuro. Innoway rappresenta bene la Cina lanciata verso una leadership tecnologica che – se arricchirà parecchi e probabilmente permetterà di vivere in città più sicure pulite e ordinate – ha il proprio delicato lato oscuro nelle inquietanti potenzialità di sviluppare una iper tecnologica forma di «controllocrazia».
Innoway è all’interno dell’area di Zhongguancun, già polo tecnologico della Cina di un’era fa, quella della Lenovo e delle big company capaci di inserirsi nei mercati internazionali grazie all’impacchettamento dell’hardware e attraverso il lavoro sfiancante e certosino degli operai. Pechino, Haidian, zona universitaria, electronic market: la storia di questa parte della città interseca quella della Cina e rappresenta al meglio la trasformazione del paese da «fabbrica del mondo» a potenza tecnologica (uno scarto che risulta ancora incomprensibile a molti occidentali), capace di investire, animare il proprio mercato interno e portare le città cinesi a diventare sempre più «smart», puntando tutto su intelligenza artificiale e Big Data applicati ad alcuni temi chiave richiesti dal governo: mobilità, controllo e sicurezza, automazioni in sede industriale.
Tutto questo è il frutto di quell’immane processo storico che la Cina ha iniziato a fine anni ’70 con le riforme e le aperture volute da Deng Xiaoping e capaci di scatenare lo spirito imprenditoriale e il grande spirito di sacrificio di milioni di lavoratori cinesi.
A FINE ANNI ’90 Zhongguancun era ancora un piccolo villaggio e la sua trasformazione non poteva che impressionare la grancassa della propaganda. Nel 2014, quando venne creata Innoway, il filo-governativo e nazionalista Global Times scriveva che «quello che un tempo era un cimitero abbandonato per gli eunuchi durante la dinastia Qing (1644-1911) è ora la culla per giganti tecnologici e start-up cinesi di successo».
Dalla fine degli anni ’90 iniziò una corsa sfrenata grazie alla presenza territorialmente vicina delle università Beida (la Peking University) e Tsinghua, ancora oggi risorse fondamentale per alimentare il futuro delle tante aziende.
Ma i tempi sono cambiati e oggi chi lavora nella Innoway non ha dubbi: un ingegnere cinese specializzato in Intelligenza artificiale guadagna più di un omologo occidentale. La trasformazione è stata clamorosa, anche grazie al sostegno politico. Il governo ha deciso di investirci, consapevole che il processo tecnologico cinese aveva bisogno di alcuni elementi fondamentali: una zona dove far convivere diverse tipologie di innovazione, ingegneri, coder, manager e soldi.
Nel 2014 il partito comunista investì circa 36 milioni di dollari; nel 2015 ci fu la visita del premier Li Keqiang: dalla sua «inaugurazione» Innoway ha fatto da «incubatrice» a 3mila startup, di cui 355 straniere. Più di mille startup hanno raccolto finanziamenti per 4,29 miliardi di dollari (in tutta l’area di Zhongguancun, oggi, ci sono circa 9mila aziende hi-tech).
NONOSTANTE IL RECENTE rallentamento sembri aver colpito anche la parte più avanzata dell’economia cinese, l’aria che si respira in questa zona tecnologica sembra essere diversa dal resto della città. Anche perché di tutta l’area di Zhongguancun, Innoway è oggi il fiore all’occhiello: è qui che risiedono le start-up, gli incubators, gli investitori, i programmatori e gli ingegneri più promettenti del paese. È qui che devono passare le aziende straniere per trovare fondi e lanciare progetti hi-tech.
Nella via si alternano piccoli edifici: ai primi piani si trovano per lo più librerie e caffetterie nelle quali quasi sempre ragazzi e ragazze (l’età media è bassissima e fa dimenticare per un attimo i problemi dovuti a un invecchiamento della popolazione, ormai uno dei più rilevanti problemi per la dirigenza comunista) consumano rapidamente un pasto o sono impegnati in riunioni. In alcuni casi ai piani terra si trovano esposizioni dei prodotti più innovativi, come nel caso di Baidu che ha qui il suo AI Lab.
POI SI SALE AI PIANI degli uffici, solitamente introdotti da stanze con tavoli e divani, molto spesso forniti di desk, perché la tendenza è quella di favorire il più possibile il co-working. È un ambiente dove cercano ispirazioni (e talenti) anche parecchie aziende straniere, ma è specificamente cinese.
In questo simil campus ovattato, pulito e stimolante ci sono almeno 20 eventi a settimana: presentazioni, talk, networking. A metà settimana è stato presentato un progetto di innovazione dedicato ai giovani (nelle scuole cinesi l’Intelligenza artificiale è già materia di studio ed è di qualche giorno fa la richiesta politica di istituire appositi corsi universitari concentrati principalmente su Intelligenza artificiale e Big Data) ed erano presenti i dirigenti del partito della zona: il Pcc sa bene che questa piccola via potrebbe aiutare in diversi modi il governo e cerca di essere presente, lasciando il più possibile – siamo sempre in Cina – libertà di sperimentare. D’altronde, chiedendo qualche opinione ai giovanissimi in coda per un caffè, sembra persistere un’idea comune: la tecnologia potrebbe facilitare la vita, dicono, rendendo le città cinesi più sicure.
La nuova parola d’ordine del governo è smart city che, tradotto dal linguaggio politico del Pcc, significa città iper connesse (e controllate) in grado di sorvegliare tanto i livelli di inquinamento quanto gli spostamenti delle persone, perfezionando il più possibile i servizi per il pubblico e fornendo prevenzione contro i crimini, considerando anche il recente clima di preoccupazione per diversi casi di omicidi verificatisi contro i bambini nelle scuole: elementi con i quali il partito comunista può legittimare la sua paranoia securitaria a 360 gradi.
E il sogno di vivere in una città così ordinata, pulita, organizzata – e con molti meno abitanti delle attuali megalopoli cinesi – sembra mettere d’accordo programmatori, ingegneri e partito comunista. Per questo alle domande sull’attuale sfida tecnologica con gli Stati uniti, la risposta è quasi sempre la stessa: «Non pensiamo agli Usa, è la Cina che ha bisogno di questo processo».
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.