Appena pochi giorni prima che il 14 novembre 2017 l’esercito occupasse la capitale dello Zimbabwe Harare innescando la destituzione “pacifica” del presidente Robert Mugabe, il generale, nonché capo delle forze armate, Constantino Chingewa si trovava a Pechino per “un normale scambio tra militari”. Una coincidenza che, sommata alla vicinanza di Chingewa al cosiddetto Lacoste Group, la fazione interna al partito di governo Zanu-PF capitanata dall’allora deposto vicepresidente – e oggi nuovo leader – Emmerson Mnangagwa, è parsa suggerire un quantomeno parziale coinvolgimento cinese nel colpo di mano.
Pechino sapeva: è quanto gli analisti hanno riferito alla stampa internazionale alludendo a un implicito endorsement della leadership comunista, preoccupata all’idea di una transizione del potere a beneficio della corrottissima first lady Grace Mugabe e a svantaggio dei propri interessi economici nel paese. Ad oggi nessuno, tuttavia, è stato in grado di smascherare la “complicità” cinese. Anzi. La sbandierata “non interferenza negli affari altrui” su cui poggia la politica estera della Repubblica popolare, corroborata dall’effettiva estraneità cinese nei passati ribaltoni politici in salsa africana – dalla Libia al Sudan – parrebbe assolvere il gigante asiatico. Così Pechino salva la faccia e i suoi investimenti nel paese (pari al 74% del totale dei capitali esteri) minacciati da una “indigenisation law” voluta dal vecchio dittatore per limitare la proprietà straniera nelle attività economiche locali al 49% ed edulcorata da Mnangagwa a inizio dicembre, non appena assunta la presidenza.
Ormai, si sa, oltreconfine il gigante asiatico ama muoversi con passo felpato. Non vincola la propria assistenza ad aut aut ideologici di americana memoria. Conquista consensi strappando assegni e portando progresso “con caratteristiche cinesi”: strade, ferrovie e scuole in cambio di petrolio, rame, cobalto e un mercato di sbocco per i propri prodotti. Al contempo, si fa largo nei palazzi del potere promuovendo la ricetta economica con cui in soli trent’anni ha scalato i gironi alti della geopolitica. Non si impone con la forza, dunque, persuade con i fatti.
A subire il fascino dell’influenza “soft” di Pechino sono soprattutto le nuove generazioni. Quelle che un giorno guideranno il terzo più grande continente del mondo. Proprio come Mnangagwa negli anni ’60 del secolo scorso divenne, appena ventenne, tra i primi leader dello Zimbabwe a ricevere un training militare oltre la Muraglia quando Mao Zedong mirava ad esportare il comunismo a sostegno dei movimenti indipendentisti dell’Africa in balia del colonialismo occidentale.
Fin dagli anni ’50 il gigante asiatico offre programmi di formazione che, ad oggi, hanno coinvolto tra gli altri il Jubilee Party, il partito di governo keniota, l’etiope People’s Revolutionary Democratic Front e il sudafricano African National Congress. Ma anziché sguinzagliare attaché ed emissari in giro per il Continente Nero, Pechino incentiva politici, studenti e imprenditori africani a compiere il viaggio in senso opposto. Secondo il giornale digitale Quartz, due anni fa il governo cinese ha annunciato di voler invitare 1.000 giovani politici africani per corsi professionali; ben oltre i 200 ricevuti tra il 2011 e il 2015. Migliaia di studenti sono al momento impegnati in programmi di studio sovvenzionati dalle autorità cinesi, tanto che nel 2017 si contavano più ragazzi africani iscritti a corsi universitari in Cina che negli Stati Uniti o nel Regno Unito, fino a poco tempo fa le due mete più gettonate.
E’ soprattutto in Sud Sudan – dove è localizzato l’80% delle risorse petrolifere sudanesi – che il gigante asiatico concentra i propri sforzi, incoraggiato dalle somiglianze storiche che accomunano il Pcc al Sudan People’s Liberation Movment (SPLM), movimento anti-imperialista di ispirazione socialista. Prima ancora che Juba divenisse indipendente, lo scambio di conoscenze tra i due governi implicava l’organizzazione di workshop sulla riduzione della povertà, il controllo dell’opinione pubblica e la gestione del Partito. Tutte specialità in cui il Partito unico cinese eccelle.
Dal 2011 a oggi, Pechino ha offerto almeno 4.100 borse di studio per studenti e funzionari sud sudanesi. Delegazioni di impiegati ministeriali di ogni settore visitano la Repubblica popolare con cadenza mensile, mentre una copia della Storia del Partito comunista cinese alberga sul comodino dei membri del SPLM. Già si parla di istituire un’organizzazione giovanile sulla falsariga della Lega della Gioventù Comunista, il feudo politico presso cui si sono formati i principali leader cinesi, dall’ex presidente Hu Jintao all’attuale premier Li Keqiang.
La speranza, a Juba, è che l’insegnamento pechinese possa aiutare il giovane paese a formare un governo centralizzato in grado di pacificare il melting pot di tribù reciprocamente ostili. Chi meglio di Pechino – alle prese con 55 minoranze – sa come gestire le criticità interne che affliggono una popolazione lacerata da conflitti etnici e religiosi. E poco importa se l’armonia sociale venga raggiunta col pugno di ferro e a discapito dei diritti universali professati alle nostre latitudini. Non tutti, ovviamente, la pensano così. “La maggior parte degli africani sta abbandonando l’Occidente in favore della Cina”, lamenta Samson Wasara, vicecancelliere dell’Università di Bhar el Ghazel, nello Stato Wau, “sarà un vero disastro per noi, soprattutto per quelli che riconoscono il valore dei diritti umani, della democrazia e della libertà di parola”.
La “lunga marcia” del Dragone è inarrestabile. Non solo la Cina detiene il primato nelle transazioni commerciali con l’Africa: circa 300 miliardi di dollari, oltre il doppio rispetto agli scambi intrattenuti dagli Stati Uniti. Sempre più spesso la dirigenza cinese punta a diversificare i propri interessi nel continente presentandosi come partner responsabile con tonnellate di aiuti umanitari e 2.600 forze di peacekeeping parcheggiate tra Sud Sudan, Mali, Libano e altre missioni Onu. Ciliegina sulla torta: secondo una ricerca della Johns Hopkins, ormai l’80% dei lavoratori impiegati nei progetti cinesi è composto da gente del posto, a sfatare il mito dell’invasione degli occhi a mandorla.
Sono tutti sforzi ben ripagati. Stando a un sondaggio di Afrobarometro effettuato nel 2016 su 56.000 persone in 36 paesi africani, il 30% degli intervistati ha dichiarato che Washington costituisce un modello di sviluppo migliore, rispetto al 24% per il quale è la Cina a classificarsi prima. In Sudafrica, Nord Africa e Africa centrale, dove il “soft power” cinese è più aggressivo, tuttavia, la Repubblica popolare pareggia o addirittura vince sugli Stati Uniti.
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Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.