C’è stato un tempo in cui il Dalai Lama veniva invitato alla Casa Bianca, le autoimmolazioni dei monaci tibetani campeggiavano sulla stampa internazionale e le violazioni dei diritti umani sul Tetto del Mondo sfilacciavano le relazioni tra Cina e Stati Uniti. Poi è arrivato Trump. Negli ultimi quattro anni, le controverse politiche etniche dispiegate da Pechino per sinizzare la regione autonoma sono scomparse dai radar dell’amministrazione statunitense. Troppo preso dalla guerra commerciale, il nuovo inquilino dello studio ovale non è parso dare alcun peso alla rapida erosione della libertà religiosa sotto la presidenza Xi Jinping.
Nell’ultimo anno, però, un po’ per motivi elettorali, un po’ per indisporre Pechino, un po’ per assecondare le richieste del Congresso, il Tibet e lo Xinjiang sono improvvisamente diventati una priorità dell’amministrazione Trump. A luglio, a distanza di oltre un anno dall’approvazione del Reciprocal Access to Tibet Act, il Dipartimento di Stato ha annunciato le prime restrizioni sul rilascio dei visti americani ai funzionari cinesi «coinvolti nella formulazione o nell’esecuzione di politiche relative all’accesso degli stranieri alle aree tibetane».
Ma la vera svolta è arrivata il 20 novembre con la storica visita alla Casa Bianca di Lobsang Sangay, la prima in sessant’anni da parte di un leader dell’Amministrazione centrale tibetana, il governo tibetano in esilio. Nientemeno che «un’organizzazione separatista» secondo Pechino, che ha assunto militarmente il controllo del Tibet nel 1950, costringendo il Dalai Lama al lasciare la regione. Da allora il centro politico tibetano si è spostato a Dharamsala, in India. La nomina di Sangay a primo ministro (Kalon Tripa), nel 2011, ha coinciso con la rinuncia di Tenzin Gyatso a ogni incarico politico per mantenere unicamente il ruolo di guida spirituale. Mentre Sangay ‒ che per anni ha intrattenuto solo segretamente gli scambi con gli esponenti dell’establishment a stelle e strisce ‒ era già stato ricevuto da Destro lo scorso mese, il suo arrivo alla Casa Bianca ufficializza implicitamente il riconoscimento americano dell’indipendenza del Tibet. Una vera bomba a orologeria per le relazioni bilaterali considerata l’irremovibilità del regime comunista davanti alle ingerenze esterne nelle questioni che concernono la sovranità nazionale. Specie in zone di interesse strategico come le regioni occidentali, ricche di risorse naturali, che separano la Repubblica Popolare da Paesi instabili come Pakistan e Afghanistan. [SEGUE SULL’ATLANTE]
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.