Seconda puntata della collaborazione tra China Files e Istituto Affari Internazionali. “Dall’Atlantico al Pacifico”: ogni due mesi un mini dossier con due diverse analisi sugli ultimi sviluppi delle relazioni tra Stati Uniti, Cina e il resto dell’Asia – (1a uscita, febbraio 2021)
Gli altri contenuti del dossier: Introduzione (Lorenzo Mariani) – L’incerto futuro di Taiwan si decide tra geopolitica ed economia (Ghiretti) – La strategia di Biden per la Corea del Nord (Paola Morselli)
Indistruttibile. Questo è l’aggettivo utilizzato dagli Stati Uniti per definire la loro alleanza con il Giappone. Un’alleanza sulla quale Joe Biden ha dimostrato di puntare molto, sin dall’inizio del suo mandato. Tokyo vede di buon grado il ritrovato attivismo americano in Asia orientale e si presta, con più o meno entusiasmo, alla retorica anti cinese dell’amministrazione democratica. La conseguenza è che il classico doppio binario con cui il Giappone si approccia alla Cina – competizione strategica e cooperazione, anzi interdipendenza, commerciale – si sta restringendo. Allo stesso tempo Tokyo non si può permettere un’esposizione esagerata nei confronti di Pechino, alla quale è legata da profondi interessi economici e da una sfaccettata relazione diplomatica. Per questo, su alcuni dossier delicati il governo nipponico si è mosso per ora più a livello retorico che concreto.
Negli ultimi due mesi i segnali sull’asse Usa-Giappone sono stati importanti. Innanzitutto, la visita di metà marzo del Segretario di Stato Antony Blinken e del Segretario alla Difesa Lloyd J. Austin. Tokyo è stata la prima tappa di un tour asiatico che ha toccato anche Seul (in coppia) e Nuova Delhi (solo per Austin). Tappa nella quale i diplomatici statunitensi hanno trovato più di una sponda nella loro offensiva anti cinese. “Il comportamento della Cina, incoerente con le attuali regole dell’ordine internazionale, presenta sfide politiche, economiche, militari e tecnologiche”, recitava il comunicato finale, dopo un incontro nel quale si è parlato di tutti i temi più sensibili, da Hong Kong al Xinjiang, da Taiwan al Mar cinese meridionale.
A metà aprile, invece, Suga Yoshihide è stato il primo leader straniero a essere ricevuto alla Casa Bianca da Biden. Il primo ministro giapponese ha accolto le richieste americane di includere Taiwan nella dichiarazione congiunta al termine dell’incontro, augurandosi che la situazione dello Stretto rimanga “pacifica e stabile”. È la prima volta che accade dal 1969. Ma la formula scelta lascia dei dubbi: impegno reale e concreto oppure calcolo politico? Tanto che Suga ci ha tenuto a chiarire che in caso di invasione di Taiwan l’esercito giapponese non si lascerebbe coinvolgere, nonostante quanto emerso durante l’incontro tra i rispettivi responsabili alla Difesa. Con la minaccia di sanzioni cinesi a testare le volontà di Tokyo.
Nonostante la vocalità del governo, sulla repressione degli uiguri il governo giapponese non ha seguito Stati Uniti, Regno Unito e Unione europea sulle sanzioni. Anzi, alcuni big dell’abbigliamento proseguono a importare cotone dal Xinjiang. D’altronde, i rapporti commerciali tra Giappone e Cina sono molto profondi. Nel 2012-2013, quando l’ex premier giapponese Shinzo Abe e il presidente cinese Xi Jinping sono saliti al potere, i rapporti bilaterali erano ai minimi termini. I due leader hanno avviato una normalizzazione, che ha portato a un aumento del 37% degli investimenti nipponici in Cina tra il 2016 e il 2019. Nel 2020 Xi avrebbe dovuto compiere una visita a Tokyo per sancire l’ingresso delle relazioni in una nuova fase. La visita è stata però prima rimandata a causa della pandemia e poi cancellata in seguito al riacutizzarsi delle tensioni diplomatiche su Hong Kong (il governo giapponese è stato tra i più reattivi a criticare l’introduzione della legge di sicurezza nazionale nel giugno 2020), Taiwan e isole Senkaku (rivendicate da Pechino, che le chiama Diaoyu, ma controllate da Tokyo).
Questo non ha fermato l’interscambio commerciale. Il programma China Exit, lanciato da Abe Shinzo, non ha intaccato la presenza dei colossi nipponici sul mercato cinese. Anzi, le grandi case automobilistiche hanno aumentato i ricavi nella Repubblica Popolare. Il legame è forte anche nel settore tecnologico: circa un quarto dei ricavi di Panasonic derivano dal mercato cinese. I produttori giapponesi hanno accolto con diversi timori i divieti trumpiani dell’export di componentistica verso attori cinesi come Huawei. A rischio c’è un business di circa 12 miliardi di dollari. Nel 2020, il 22% dell’export nipponico è stato destinato alla Repubblica Popolare, una cifra record che ha fatto sorgere qualche preoccupazione per un’eccessiva dipendenza. Numeri ancora più rilevanti se si considera che un ulteriore 5% delle esportazioni è stata destinata a Hong Kong per un totale del 27% tra Repubblica Popolare ed ex colonia britannica, a fronte del 18% di esportazioni verso gli Stati Uniti.
Non è un caso che Usa e Giappone abbiano lanciato un progetto infrastrutturale e di investimenti congiunto, che il Nikkei Asian Review ha definito “Belt and Road alternativa” da realizzare nell’area dell’Indo Pacifico. Il tentativo è quello di rafforzare le catene di approvvigionamento alternative (come dimostra anche la Supply Chain Resilience Initiative annunciata da Tokyo, Canberra e Nuova Delhi) e provare a competere anche con la tecnologia cinese. In questo senso, Usa e Giappone hanno approntato un investimento congiunto di 4,5 miliardi di dollari per lo sviluppo del 6G.
Il maggiore allineamento tra Tokyo e Pechino può però avere ripercussioni anche sul “campo”. Le tensioni sulle Senkaku/Diaoyu (tema sul quale c’è stata anche una gaffe del Pentagono che in una conferenza stampa ha disatteso la consueta linea diplomatica appoggiando la sovranità giapponese) sono aumentate dopo che il governo cinese ha approvato la nuova legge sulla guardia costiera, che di fatto acquisisce la possibilità di utilizzare le armi a difesa della sovranità marittima di Pechino. Il governo giapponese sta valutando la possibilità di inviare truppe a difesa dell’arcipelago e nel frattempo continua ad aumentare le capacità militari dell’esercito. Per il 2021 è stato approvato un budget difensivo record da 51,7 miliardi per il 2021, prevedendo una crescita fino a 56,7 miliardi nel 2024.
Ma l’approccio anti cinese statunitense, che Biden accompagna alla retorica sui diritti umani e al rafforzamento delle partnership, non accontenta tutti in Giappone, costretto a venire allo scoperto e abbandonare almeno in parte i toni felpati del passato. Sul piatto c’è anche il ruolo del Quad. Al summit virtuale dei leader dello scorso marzo è stata citata apertamente “l’aggressione cinese”e a giugno potrebbe esserci il primo incontro di persona, a margine del G7. Ma Tokyo non condivide la definizione di “Nato asiatica” che lo stesso Biden ha richiamato nel suo discorso per i primi cento giorni di mandato al Congresso Usa in seduta plenaria. Dopo la visita in Vietnam e Indonesia, Paesi coi quali il Giappone ha stretto accordi di cooperazione difensiva e fornitura militare, Suga ha allontanato quella definizione dal Quad.
Tokyo vuole la diversificazione delle proprie catene di approvvigionamento, non il decoupling. E vuole un’America proattiva nel contenere la Cina, non il confronto o peggio lo scontro. Mantenere la linea non sarà semplice.
Di Lorenzo Lamperti
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.