Fu Disney a farmi conoscere Mulan. Avevo 14 anni di cui gli ultimi 10 passati in Italia, una ragazza di seconda generazione di origine cinese o IBC, Italian Born Chinese, calco dall’acronimo ABC, American Born Chinese. O sino-discendente, termine che mi è subito piaciuto quando l’ho letto in un articolo della sinologa Valentina Pedone. Mette in risalto la discendenza e non la dualità italo-cinese.
Il film di Mulan della Disney uscì in quei fine anni ’90, quando il grosso del flusso di migrazione dalla Cina in Europa e in Italia si era stabilizzato. In quel periodo i nostri genitori, la cosiddetta prima generazione, avevano una sola grande priorità: la sicurezza economica. Perciò lavoravano fino a sfinirsi e consumarsi lo spirito mentre noi bambini eravamo stati presi dal paese tra le colline cinesi e buttati nel mare dell’italianità con solo poche parole di sopravvivenza. O nascevamo qui, senza alcuna cognizione di essere italiani o cinesi. Non abbiamo mai avuto i weekend al mare o la favola della buonanotte. Ma avevamo le cassette di film che qualche cugino grande o zio giovane faceva girare tra noi bambini e ragazzini della complicata rete di famiglie chiamata comunità. Immaginatevi grandi clan con otto zii e cinquanta cugini e moltiplicate per dieci. E, insieme alle serie TV cinesi, i film della Disney erano quelli più popolari: Aladdin, Il Re Leone, Mulan. Storie di crescita e di maturazione dove il protagonista riusciva a raggiungere il successo. La me bambina le associava inconsciamente al sogno migratorio che, benché non mio, era inciso nella mia testa. Mi rincuorava vedere questi giovani – Aladdin, Simba, Mulan – che da poveri o dimenticati o sfortunati diventavano grandi, rispettati e con un proprio posto nel mondo.
Con il film di Mulan c’era stato anche un pizzico di rivincita femminile: era una donna che aveva sconfitto in battaglia un uomo. Noi donne cinesi, non importa se in Cina, nella diaspora, con una famiglia tradizionale o nel caos della migrazione, sappiamo bene quali siano i nostri doveri, ce li inculcano da bambine. Siamo posate – da un antico detto chengyu: “Sorridiamo senza mostrare i denti” -, efficaci in qualsiasi ruolo – da un altro antico detto chengyu: “In grado sia di stare in cucina che in salotto”. E, soprattutto, rispettose dei genitori, degli zii, dei nonni, della generazione precedente. Concetto trasposto nella famosa e intraducibile parola xiaoshun.
La me bambina provava empatia per Mulan, soprattutto nella scena dove è costretta a presentarsi dalla sensale per essere poi valutata e scartata. Capiva bene l’afflato di libertà ed eccitazione che aveva provato la protagonista quando lascia la propria casa per l’avventura. La me bambina veniva rincuorata dal successo che quest’eroina raggiungeva. Anni dopo avrei capito che la figura di Mulan era celebrata non per il coraggio di essere entrata nell’esercito e sfuggita al suo destino di moglie, bensì per essersi arruolata per un legittimo motivo: sostituire il vecchio padre malato. Quello era xiaoshun, pietà filiale. E poi, aveva vinto la guerra salvando l’Impero. Fondamentale, perché Mulan viene perdonata di essersi travestita da uomo proprio perché ha vinto il nemico. Se fosse morta durante la battaglia o l’esercito avesse perso la guerra sarebbe stata irrisa. Per fortuna vinse.
Pochi anni dopo, arrivò nelle nostre case sino-italiane una serie TV taiwanese su Mulan, forte del grande successo suscitato sia nella Cina continentale che in tutta l’area asiatica. Spesso, all’estero, le serie tv cinesi sono viste con più sentimento perché agli occhi delle comunità della diaspora rappresentano un simbolo di cinesità in una vita aliena. Per questo, le prime generazioni di genitori o nonni sono tanto appassionate e le guardano con nostalgia.
Poi, nel 2009 ci fu il film di Mulan prodotto nella Cina continentale dove l’eroina era interpretata da Zhao Wei, attrice famosa per il personaggio di Piccola Rondine, fanciulla ribelle di una serie tv simbolo dei nostri 14 anni, My Fair Princess (uscì in Cina nel 1998 e arrivò nel resto del mondo poco dopo). Commovente la scena dove Mulan, ormai sola e logorata dalla guerra, torna a casa e si lascia andare a un pianto sofferente allungando le mani inasprite da 12 anni di vita nell’esercito. Una vita intera passata a combattere in nome dello xiaoshun e della lealtà verso la patria.
Film dopo film e serie dopo serie, i ricordi si sono accumulati, ci sono le tante Mulan ma anche Piccola Rondine e ad ogni visione, come tanti altri coetanei IBC, venivo trasportata in un mondo lontano chiamato Cina che mi apparteneva attraverso le serie e perché avevo gli occhi a mandorla.
Mi aspettavo dunque la stessa emozione e lo stesso trasporto nella visione di questo attuale action-movie della Disney, tanto più che ha per protagonista un’attrice amatissima sia da noi della diaspora sia in Cina, Liu Yifei. Sembrava dovesse essere un successo assicurato. Invece, già dalle prime immagini del film la sensazione è sbagliata, la visione è come distorta, i colori troppo brillanti, la protagonista ha gli occhi truccati troppo piccoli, non piace. Sorride con troppi denti. Sullo schermo scorrono concetti e idee troppo confuse e incoerenti che mi riempiono di interrogativi: perché il Qi, energia vitale che permea ogni essere vivente, diventa la magia di Harry Potter? Perché Mulan, simbolo dell’impegno, del sacrificio e dello xiaoshun, diventa la predestinata di un film fantasy? Come fanno a coesistere dentro una stessa persona valori quali la pietà filiale e la ricerca di se stesse? C’è un affastellamento di contraddizioni che mi disorienta. Il ricordo di Mulan non c’è più.
Resta la Disney. Con i suoi buoni sentimenti, l’ingenuo entusiasmo per la vita e il ricordo di me bambina davanti alla cassetta di Mulan. E mi vengono in mente le parole di un’amica cinese: “Guarda questo film non come la storia di Mulan ma come fosse una favola”. E sarai riconciliata.
Di Jada Bai*
*Jada Bai è docente di lingua cinese e organizzatrice di eventi culturali. Nata in Cina, si trasferisce a Milano da piccolissima con la famiglia. Si diploma al liceo classico Giosuè Carducci e si laurea successivamente in Scienze della Mediazione Linguistica e Culturale presso l’Università degli Studi di Milano. Studia per un periodo anche presso la Fudan University di Shanghai con una borsa di studio. Si occupa di comunità cinese e condizione femminile e ne ha scritto per varie testate giornalistiche. Dal 2013 è coordinatrice dei corsi di lingua cinese e organizzatrice di eventi culturali presso la Scuola di Formazione Permanente della Fondazione Italia Cina.