Il primo Nobel ‘veramente’ cinese

In by Simone

Mo Yan è il primo premio Nobel “di nazionalità” cinese. Prima di lui Gao Xingjian, Charles Kao e Liu Xiaobo non sono stati riconosciuti come tali. E in Cina si era discusso sul perché la madrepatria non riuscisse a esprimere un’eccellenza degna del premio. La letteratura appariva il vero e proprio tallone d’Achille.

 Mo Yan ha vinto il premio Nobel per la letteratura 2012, “per avere fuso realismo visionario, racconti popolari, storia e contemporaneità”, recita il comunicato dell’Accademia svedese delle Scienze.

Noto per opere come Sorgo Rosso, Grande seno, fianchi larghi, Il supplizio del legno di sandalo e l’ultima pubblicata in Italia, Le sei reincarnazioni di Ximen Nao, lo scrittore cinese, classe 1955, è originario del villaggio di Gaomi, nello Shandong, che fa da scenario ad alcuni dei suoi scritti. 

Figlio di contadini, si arruola nel 1976 nell’Esercito popolare di liberazione e sotto le armi comincia a studiare letteratura e a scrivere.

Guan Moye – Mo Yan è un nome d’arte che significa “senza parole” – esordisce negli anni Ottanta come rappresentante della letteratura “delle radici”, che riscopriva la tradizione cinese dopo la rimozione compiuta negli anni della Rivoluzione Culturale. In seguito se ne distacca per elaborare un proprio stile originale, che ne fa uno degli autori cinesi più tradotti in Occidente, dove la notorietà arriva soprattutto con la riduzione cinematografica di Sorgo Rosso, che vince il festival di Berlino del 1988.

Mo Yan era dato alla vigilia in leggero svantaggio rispetto al giapponese Murakami dagli stessi commentatori cinesi, che ritenevano poco probabile l’assegnazione del premio a uno scrittore che è vicepresidente dell’associazione degli scrittori cinesi e non ha mai preso le distanze dall’establishment politico del suo Paese.

In queste ore, sui social media le felicitazioni si alternano alle critiche più o meno velate, talvolta velenose: “Ecco come si ottiene un premio Nobel in Cina: ‘Senza parole’”, scrive su Twitter un altro scrittore cinese, Lian Yue. In una recente intervista, Mo ha dichiarato che la censura è un bene per la produzione creativa, “perché in un tale frangente lo scrittore è in grado di iniettare [ai fatti sensibili] la propria immaginazione, per isolarli dal mondo reale, o può esagerare le situazioni rendendole più forti e vivide”.

I romanzi di Mo Yan sono in realtà carichi di elementi che descrivono una realtà cinese fatta di morte, sangue, dolore, tragedie familiari e violenza senza senso. La storia incombe sui destini degli umani e il potere è spesso ridicolizzato, come in Le sei reincarnazioni di Ximen Nao, dove un ex proprietario terriero, giustiziato all’indomani della presa di potere da parte dei comunisti, vive gli ultimi sessant’anni di storia cinese attraverso successive reincarnazioni nel corpo di animali tipici della civiltà rurale. La critica sociale – più che politica – è ben presente nell’ultimo romanzo cinese di Mo Yan (in traduzione presso Einaudi), Wa, interpretato come una critica alla quarantennale politica del figlio unico.

Dopo il caso del Nobel per la pace assegnato nel 2010 al dissidente Liu Xiaobo, che suscitò reazioni indignate da parte delle autorità cinesi, alcuni commentatori hanno immediatamente spiegato il riconoscimento a Mo Yan come un parziale risarcimento al Dragone, Paese ormai indispensabile negli equilibri globali. 

Mo Yan è in realtà il primo scrittore “di nazionalità” cinese a vincere il Nobel. Prima di lui, il riconoscimento era andato a Gao Xingjian (2000), di origini cinesi ma cittadino francese. Negli anni, l’opinione pubblica cinese ha maturato un rapporto di amore-odio con il Nobel. Dopo il caso di Gao, nel 2009 Charles Kao, cinese di passaporto Usa, vinse il massimo riconoscimento per la fisica.

A quel tempo, in rete si discusse molto del perché la madrepatria non riuscisse a esprimere un’eccellenza degna del premio e le opinioni si divisero tra recriminazioni e critiche all’ambiente culturale cinese, ricco di investimenti ma povero di creatività. La letteratura appariva poi il vero e proprio tallone d’Achille di Pechino, dato che in altri ambiti creativi, cinema in primis, la Cina continua ad accumulare riconoscimenti internazionali.

Ora, il Nobel di Mo Yan sembra determinare una svolta. La Cina può produrre letteratura “alta”. Anche quando racconta la sporcizia dei villaggi e la sofferenza di una società molto poco armoniosa.

[Scritto per L’Unità]
*
Gabriele Battaglia e’ stato corrispondente da Pechino per PeaceReporter ed E-il mensile. Ha cominciato come web-giornalista e si e’ misurato poi con diversi media e piattaforme. In una vita precedente, e’ stato redattore di Virgilio.it e collaboratore di un certo numero di testate sui piu’ disparati temi: dalla cultura alla divulgazione scientifica, passando dai trattori e dalle fotogallery su Britney Spears. E’ autore, con Claudia Pozzoli, del webdocumentario "Inside Beijing". Oltre che la Cina e l’Oriente in genere, gli piace l’Artico, sia per interesse giornalistico sia per il clima. Non ha ne’ l’automobile ne’ la Tv e ogni tanto si fa male cadendo in bicicletta. Vive tra Pechino e Milano.