Washington e Pechino attingeranno alle proprie riserve strategiche per ragioni di mercato e non per questioni di sicurezza interna
Cinquanta milioni di barili di petrolio verranno prelevati dalla riserva strategica degli Usa, la scorta a cui il paese attinge in situazioni di emergenza, e immessi sul mercato.
L’OBIETTIVO: far abbassare i prezzi del greggio – fino a poche settimane fa erano sopra gli 85 dollari, e tendevano verso l’alto – e rimuovere un ostacolo alla ripresa economica dalla pandemia. L’amministrazione di Joe Biden vorrebbe decarbonizzare la nazione, azzerandone le emissioni nette, ma nel breve periodo non riesce proprio a fare a meno del petrolio. Perché se la materia prima è cara anche la benzina ai distributori costa di più; e considerati poi gli intoppi alla logistica, l’inflazione che sale più del previsto e il malcontento degli americani, la Casa Bianca avvertiva l’urgenza di intervenire. L’Opec+ infatti, il gruppo dei grandi esportatori capeggiato da Arabia Saudita e Russia, sta limitando la produzione e non vuole saperne di cambiare approccio. Da mesi Biden e i suoi collaboratori mettevano pressione al gruppo perché liberasse più barili, ma senza successo. Il G20 di Roma ha offerto al presidente l’occasione di compattare i maggiori consumatori di greggio in vista di un’azione coordinata. Che, ieri, è arrivata.
NON SARANNO SOLO gli Stati Uniti a dare fondo alle riserve infatti, ma anche l’India, il Giappone, la Corea del sud e il Regno Unito. E, soprattutto, la Cina. La mossa è notevolissima, per diversi motivi. Innanzitutto perché è raro che un paese decida di toccare le proprie scorte strategiche, ed è ancora più insolito che lo faccia per ragioni di mercato piuttosto che di sicurezza in senso stretto.
Poi perché la decisione è il frutto di un accordo privato tra governi, non della mediazione dell’Agenzia internazionale dell’energia (come fu nel 2011). E infine perché, una decina di giorni dopo la dichiarazione di Glasgow, Washington e Pechino tornano a collaborare: non sul clima stavolta, ma sul petrolio. Per quanto molto diverse – e l’ultima manchi ancora di dettagli –, queste intese sembrano confermare che la competizione tra le due potenze non debba necessariamente condurre a chiusure totali, ma che sia possibile trovare dei punti di contatto. Ammesso, però, che gli accordi soddisfino gli interessi di entrambi: un aspetto che il Global Times, il tabloid legato al Partito comunista cinese, ha tenuto a sottolineare. Sui prezzi dell’energia, comunque, le preoccupazioni di Xi Jinping non sono tanto diverse da quelle di Biden: l’andamento dell’inflazione è un tema sensibile anche in Cina, con l’indice dei prezzi alla produzione ai massimi dal 1995. A settembre il paese – il più grande importatore di greggio al mondo, seguito dagli Stati Uniti – aveva già messo in vendita barili dalla riserva strategica per modificare gli equilibri e dare sollievo alle raffinerie nazionali.
È ANCORA PRESTO per dare un giudizio sugli effetti concreti della mossa a trazione americana. L’annuncio di ieri e le anticipazioni dei giorni precedenti hanno raffreddato i prezzi del petrolio, che tuttavia rimangono alti, intorno agli 80 dollari. Forse i trader si aspettavano più barili: ai cinquanta milioni messi dagli Stati Uniti, Nuova Delhi ne aggiungerà 5, Tokyo e Seul poco meno ciascuna, Londra 1,5 e Pechino non ha fornito cifre. L’Opec+ continua a dire di non volere aumentare l’output oltre quanto stabilito (400mila barili al giorno ogni mese). A Washington, intanto, già si lavora alla nuova offensiva contro il cartello: una legge antitrust, chiamata Nopec, che potrebbe prendere di mira le finanze saudite ed emiratine con l’accusa di manipolazione del mercato.
Di Marco dell’Aguzzo
[Pubblicato su il manifesto]