Una rivolta operaia che ha dato vita a quello che in Cina è stato uno tra i movimenti più importanti a segnare il passaggio dall’impero allo stato nazione. Gli agitatori erano naturalmente accusati di essere mossi dalla Russia rivoluzionaria, che pochi anni prima aveva simbolicamente restituito le sue Concessioni e aveva stretto alleanza con i nazionalisti. La realtà era però più complessa.
Novant’anni fa la Cina non era un posto tranquillo. Aveva appena conosciuto le umiliazioni militari inflitte dall’Occidente e da un Paese asiatico una volta suo vassallo, il Giappone. Aveva visto cadere, non senza qualche dubbio, un impero millenario per lasciare posto a una Repubblica di slancio nazionalista, incapace però di opporsi a colpi di Stato, signori della guerra e corruzione. Insomma, la Cina un tempo pronta ad assorbire la scienza occidentale per asservirla alla sua tradizione si ritrovava ora indebolita e, ad ascoltare gli echi del darwinismo sociale, rischiava “l’estinzione”.
Eppure, i cinesi non erano per niente rassegnati.
Il 4 maggio 1919, tremila studenti da piazza Tiananmen presero la volta del quartiere delle delegazioni straniere. Due anni prima, la Cina aveva dichiarato guerra alla Germania partecipando così alla prima guerra mondiale e, alla notizia della sconfitta degli Imperi centrali, feste di vittoria avevano invaso la capitale. Berlino avrebbe infatti perso le sue Concessioni, quelle porzioni di territorio sovrano che erano state cedute da un impero sottomesso alle potenze coloniali. Chi sperava nella restituzione al popolo cinese ricevette un’amara notizia da Versailles: i possedimenti tedeschi sarebbero passati all’acerrimo nemico giapponese. Al contempo si seppe che il premier cinese che aveva portato il Paese in guerra, Duan Qirui, aveva segretamente svenduto le illusioni dei suoi compatrioti in cambio di finanziamenti e tangenti.
La rabbia popolare che ne esplose, cioè il movimento del 4 maggio, andò ben oltre lo scatto del momento. Un miscuglio di idee innovative per la modernizzazione della Cina non si limitò a introdurre nuove dottrine politiche, ad esempio il marxismo, ma creò anche un moto di opposizione all’ideale confuciano, al rispetto delle gerarchie e a pratiche come i matrimoni combinati. Il taglio del codino, atto simbolico di quei giorni, esprimeva l’ambizione di formare una nuova mentalità e una classe politica più devota agli interessi nazionali. Quantunque variegato fosse il panorama delle proposte politiche, nessuna prevalse e piano piano si fece strada un clima di instabilità insurrezionale continuo per tutti gli anni Venti.
In quel maggio 1925, all’uscita delle fabbriche, gli studenti diffondevano volantini di protesta. I caratteri facili da leggere, magari in stile vernacolare, alimentavano la tensione con gli stranieri e gli scioperi erano all’ordine del giorno. A un’irruzione luddista in un cotonificio giapponese, i caposquadra giapponesi risposero con le armi e uccisero un giovane operaio. Rapido, un meccanismo ormai consolidato generò infinite dimostrazioni pubbliche, scioperi e arresti. Il 30 maggio, una folla di duemila persone chiedeva a gran voce il rilascio di chi era stato fermato davanti alla stazione di polizia del settlement internazionale. «A morte lo straniero!», questa la voce della folla secondo quanto dichiarò in seguito l’ispettore al comando Everson che, al penetrare di alcuni manifestanti nell’edificio, diede un taglio netto alla questione ordinando il fuoco sulla folla recidiva. I cinque morti e ventotto feriti rimasti a terra convinsero gli astanti a ritirarsi, ma il successo fu solo momentaneo.
Nei giorni successivi, la protesta di studenti e “sobillatori” dilagò dando vita a un movimento, quello del 30 maggio [五卅运动], che si sarebbe esteso fino al 1926-1927 e che ebbe dimostrazioni di solidarietà da studenti, operai e commercianti di tutta la Cina fino a contagiare anche Hankou, Canton e perfino l’inglese Hong Kong – forse il moto di protesta più vasto e duraturo di tutto il secolo XX. Una parola ricorre nei telegrammi dell’epoca: comunisti. Gli agitatori erano naturalmente accusati di essere mossi dalla Russia rivoluzionaria, che pochi anni prima aveva simbolicamente restituito le sue Concessioni e aveva stretto alleanza con i nazionalisti. La realtà era però più complessa.
Il Guomindang era molto cambiato rispetto a quello che aveva vinto le elezioni del 1913 per poi essere dichiarato fuorilegge dal golpista Yuan Shikai. La rottura dell’isolamento internazionale grazie all’aiuto sovietico e la scelta di un’istanza rivoluzionaria avevano lasciato posto, dopo la morte del suo leader storico Sun Yat-sen, a un partito nuovo ma non unitario nelle idee. Dietro il movimento del 30 maggio come dietro ad altre sollevazioni si muoveva una nuova generazione di membri del partito, non per forza di sinistra né convinti della necessità di una rivoluzione sociale. Tra di loro vi era lo stesso Chiang Kai-shek, direttore dell’accademia militare di Whampoa e protagonista di lì a poco della Spedizione verso il nord che avrebbe riunificato, almeno nominalmente, il Paese.
Dall’altra parte c’era il neonato Partito comunista cinese. Proprio con il movimento del 30 maggio i suoi iscritti sarebbero decuplicati riuscendo sancendo la capacità di entrare in contatto con la realtà sociale, non soltanto operaia, della Cina urbana. Unito in una fragile alleanza con i nazionalisti fino al 1927 e mal guidato dalle direttive di Mosca, il partito era animato da militanti che erano tutt’altro che una copia dei bolscevichi. Sperimentazioni diverse fra loro si svolgevano sia nell’ambiente metropolitano sia nelle grandi campagne contadine. In qualche modo, anche il vocabolario era cambiato. Termini propri del lessico rivoluzionario, soprattutto “imperialismo”, si erano ormai diffusi e spostavano lentamente le prospettive programmatiche sulle necessità nazionali e sugli obiettivi da perseguire nel breve periodo.
Altri attori, come la Camera di commercio di Shanghai, ebbero ruoli di primo piano nel 30 maggio organizzando boicottaggi e puntando a paralizzare la produzione delle industrie della Concessione. Nonostante il bottino conclusivo di questo movimento sia stato politicamente magro, questo processo storico in cui culmina l’irrequietezza scoppiata nel 1919 introduce direttamente al periodo successivo, alla leadership di Chiang, agli anni dell’invasione giapponese e a quelli della guerra civile precedenti la proclamazione della Repubblica popolare di Mao. In effetti, era il nazionalismo l’ingrediente speciale delle insurrezioni del 1925-6, un concetto in Cina tutt’oggi sfuggente, di cui ancora si indagano le zone di luce e quelle d’ombra.
*Lorenzo M. Capisani è dottorando in Scienze storiche presso l’Università Cattolica di Milano. Qui nel 2011 si è laureato in Storia della Cina contemporanea con una tesi su "Italia e Cina negli anni Cinquanta". Ha quindi studiato, lavorato e viaggiato in Cina per tutto il 2012. Al suo ritorno ha avuto esperienze professionali diverse pubblicando al contempo due saggi legati alla tesi e, nell’ottobre 2013, ha vinto un bando come ricercatore presso l’ISPI (Istituto per gli studi di politica internazionale). Dopo vari rinnovi, dal giugno 2014 si è dedicato prevalentemente al dottorato, a cui era stato ammesso in dicembre. Studia il passaggio della Cina dall’impero alla nazione.