La Cina guarda con preoccupazione alla crisi Ucraina. Nella telefonata con Biden Xi Jinping non ha «scaricato» Putin. Ma Pechino è preoccupata per le conseguenze economiche del conflitto
Cosa farà la Cina? La domanda è diventata una specie di refrain da quando è iniziata l’invasione russa e si è via via intensificata mano a mano che i bombardamenti russi hanno colpito i civili e che la pressione americana – affinché Pechino prendesse una posizione chiara – ha cominciato a instillare il dubbio che la Cina possa sostenere economicamente e militarmene la Russia (eventi che ad ora non sono avvenuti, con la Cina che ha più volte specificato di non aver ricevuto alcuna richiesta di armamenti da parte di Mosca).
PECHINO, IN REALTÀ, TRA LE RIGHE ha ampiamente lasciato intendere che l’avventura di Putin può diventare una sciagura: non c’è una ragione razionale perché il Pcc possa appoggiare una simile iniziativa che più di tutto porta a disordine e imprevedibilità, quanto la Cina teme di più in assoluto.
Per il Partito comunista cinese e il suo meticcio modus operandi, tra leninismo e confucianesimo (almeno a parole), la cosa più importante è l’ordine, sia interno sia internazionale, condizione fondamentale per il «buon governo», per «l’armonia», la stabilità e soprattutto perché gli affari possano proseguire senza intoppi. La guerra è il massimo del disordine, del caos, dell’impossibilità a proseguire come in precedenza. Una guerra mina la percezione di sicurezza, laddove dire «sicurezza della Cina», per altro, per i funzionari del Partito comunista cinese significa dire «sicurezza per il Pcc».
Del resto lo stesso Xi Jinping nel suo dialogo di due ore con Biden di venerdì ha specificato che guerra, sanzioni e la recrudescenza del Covid (che in Cina ieri ha fatto le prime due vittime da oltre un anno e ha ricatapultato il paese indietro di due anni con chiusure di città, fabbriche e poli logistici, con tutto quanto ne conseguirà per la filiera globale) sono preoccupazioni molto dense per la leadership di Pechino. Analogamente i segnali che sono arrivati dal fronte economico dimostrano che la Cina per quanto critica, sta rispettando le sanzioni e non sembra intenzionato a cambiare il proprio atteggiamento.
Tanto più che Pechino non può sacrificare l’interscambio con Ue e Usa a fronte di un isolamento per sostenere un partner economico di proporzioni minori come la Russia, specie in un momento nel quale la sua economia rallenta (le stime di crescita al 5,5% sono le più basse da 30 anni) e alcune riforme – pensioni e tassa sulla casa – proprio per questo motivo sono state, al momento, messe da parte.
PERCHÉ ALLORA LA CINA non sconfessa definitivamente Putin e la sua guerra in Ucraina? Ci sono molti motivi di opportunità, compreso il fatto che a investire così tanto in questa relazione con Mosca è stato in primo luogo il numero uno cinese, Xi Jinping. Dire che Putin è un avventuriero o un criminale significherebbe dire che il leader che si appresta a ottenere (a ottobre, al ventesimo congresso) uno storico terzo mandato ha sbagliato completamente i calcoli. Xi Jinping e con lui la sua cricca di funzionari posti ai livelli più apicali perderebbero la faccia, tanto a livello internazionale, quanto a livello interno. Questo non comporterebbe presumibilmente problemi a Xi, ma i peripli degli scontri interni al Pcc sono imprevedibili, oltre che quasi sempre imperscrutabili.
La Cina, dal nostro punto di vista occidentale, è una terra di contraddizioni (il suo modello del resto è definito dai cinesi «socialismo di mercato»), a cui dobbiamo aggiungerne una in questo momento storico, ovvero «stare con la Russia senza stare con la Russia»: in Occidente ci si attende una risposta chiara, come vorremmo noi, in un senso o in un altro; non accadrà, almeno non ora, perché la Cina procede in modo graduale, aspetta il momento opportuno per «scoprirsi», teme l’imprevedibilità degli eventi e si concentra per farsi trovare pronta in nuovi scenari. L’ipotesi di Pechino come mediatore, quindi, non può essere considerata all’ordine del giorno.
COME HA SPIEGATO al manifesto Giulia Sciorati, analista della geopolitica asiatica dell’Università di Trento dopo l’incontro virtuale di venerdì tra Biden e Xi, «Come atteso da diversi osservatori, non ci sono stati grandi passi avanti nella videoconferenza tra Biden e Xi. Il punto davvero sollevato da Pechino sulla guerra in Ucraina è infatti stato quello dell’impegno cinese nel fornire assistenza umanitaria alle vittime del conflitto, una tematica su cui la Cina ha iniziato a concentrarsi sempre di più la sua narrazione dopo le critiche – nazionali e internazionali – subìte nelle ultime settimane per il mantenimento di una retorica, se non proprio neutrale, almeno troppo cauta. Non ci si può aspettare nulla di diverso in un incontro come questo, sotto i riflettori di tutto il mondo: ed è proprio su questo punto che c’è da aspettarsi proseguiranno gli sforzi, pratici e narrativi, di Pechino nell’immediato».
Sull’alleanza – «la partnership strategica» come la chiamano a Pechino – con la Russia, al Die Zeit Zheng Yongnian, un politologo cinese, ha specificato che «Sarebbe un errore strategico stringere un’alleanza con la Russia. Ma cos’è un’”amicizia senza confini”? Ogni relazione tra stati ha dei confini; non bisogna prenderlo troppo alla lettera. Un’”amicizia”, a differenza di un’alleanza, è difficile da definire. Ricordiamoci che Mao Zedong ha rotto con l’Unione Sovietica in breve tempo negli anni ’50. Alcuni ora credono che la Russia diventerà uno stato vassallo cinese. Questo non accadrà. La Russia è la Russia, la Cina è la Cina». Su questo tema si sono espressi parecchi intellettuali cinesi anche nei primi giorni di guerra, quando l’ecosistema informativo cinese era sdraiato su posizioni chiaramente filorusse (negli ultimi giorni abbiamo invece osservato come ad esempio la tv di stato cinese stia trasmettendo immagini di bombardamenti sui civili offrendo una narrazione nuova di quanto sta accadendo in Ucraina).
DOPO IL SUCCESSO di un’analisi di Hu Wei, un consigliere del governo cinese, critico nei confronti di Putin e il cui articolo è stato censurato ma è continuato a girare su WeChat, anche altri hanno esplicitato la propria opinione. Ad esempio Qin Hui già docente di storia alla prestigiosa Tsinghua University ha scritto che «Dobbiamo notare che mentre Putin condanna Lenin e i bolscevichi, non dice una parola sull’oppressione dei gruppi etnici o sull’espansione imperiale da parte della Russia zarista e, tra le righe, esprime chiaramente il suo desiderio per l’eredità della Russia imperiale e il suo risentimento per i bolscevichi per averlo distrutto. Ai tempi, quando Mao Zedong, in un momento antisovietico, definì notoriamente il Pcus un “nuovo zar”, forse non era del tutto appropriato, almeno da un punto di vista ideologico, ma “l’imperatore Putin” non aspettava altro che assumere questo ruolo» (l’articolo di Qin è stato tradotto dal sito readingthechinesedream.com).
QUAL È DUNQUE «il ritmo» dell’evoluzione cinese sul tema? Bisogna ricordare, intanto, le prime dichiarazioni del ministro degli esteri Wang Yi, ancora prima dell’invasione, quando a Monaco aveva ricordato che l’inviolabilità territoriale dell’Ucraina era considerata inviolabile da Pechino.
MA LA POSTURA CINESE non può essere compresa, probabilmente, senza considerare la relazione con gli Strati uniti e l’ultima telefonata tra Xi e Biden. A questo proposito l’analista di Ispi Filippo Fasulo ha spiegato al manifesto che «sia la Cina sia gli Usa vedono il conflitto alla luce della competizione tra grandi poteri e danno al rapporto bilaterale. Pechino insiste sulla dimensione umanitaria perché sente il rischio reputazionale di essere associato alle violenze della Russia. Questo dovrebbe limitare la possibilità di un supporto militare alla Russia. Pechino ha percorso la pressione mediatica degli Usa e ha cercato di “rimontare” pubblicando dichiarazioni mentre il meeting era ancora in corso e pubblicando in tempi brevi un comunicato. Si vedranno effetti gli nei prossimi giorni, così come questo incontro è avvenuto dopo quello di Roma, ma l’indicazione ai gradi inferiori di più essere operativi nelle fasi successive suggerisce che si sono trovati dei punti in comune».
ANCHE GIULIA SCIORATI è sulla stessa lunghezza d’onda: «Se Pechino e Washington hanno trovato un punto comune nella volontà di facilitare una soluzione negoziale al conflitto in Ucraina, le differenze nell’approccio al sistema internazionale rimangono molteplici, come ricordato dagli stessi leader nel comunicato ufficiale post-videoconferenza. Un segnale positivo si rileva dal fatto che entrambe le parti abbiano ricordato di volersi districarsi dalla “mentalità da guerra fredda” iniziata, in termini pratici, con la guerra commerciale sotto la presidenza Trump. Ma com’era stato per il Comunicato di Shanghai di cinquant’anni fa, prima di raggiungere una normalizzazione delle relazioni bilaterali, il lavoro diplomatico è ancora molto lungo».
Di Simone Pieranni
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.