La sicurezza di Trump e Kim a Singapore, nelle ore che hanno preceduto il vertice e poi a Sentosa, è stata garantita dagli uomini del «Gurkhas Contingent», un corpo d’élite nepalese.
A Singapore, nei pressi delle residenze dei membri del governo, ci sono loro, riconoscibili dalla loro divisa, dal cappello e dal fucile, ma il segreto del «mito» dei Gurkhas è la capacità e la precisione nell’uso del pugnale, simbolo della loro forza, temerarietà e sospetta invincibilità.
Dai tempi dell’indipendenza della città, i Ghurkas sono un corpo speciale della polizia locale: vivono in un compound riservato con le loro famiglie. Ogni due anni devono tornare in Nepal per sei mesi; raggiunto il quarantacinquesimo anno di età, sono obbligati a trasferirsi nel loro luogo di origine.
A Singapore sono utilizzati anche per i tanti vertici internazionali che la città ospita e costituiscono un’eredità del periodo coloniale britannico (quando Londra si accorse della loro forza e li volle all’interno delle proprie «armate»).
A SINGAPORE convinsero tutti quando nel 1964 — allo scoppio degli scontri etnici — garantirono imparzialità nella gestione delle battaglie di strada tra la popolazione di etnia malay e quella cinese. Da allora le loro gesta sono diventate epiche a giustificare in modo tacito la loro presenza a Singapore.
Di oltre 15mila candidati, ogni anno solo 400 sono accettati e — dopo una durissima preparazione — solo in 100 possono arrivare a Singapore.
Singapore, polizia Gurkhas di guardia all’Hotel Shangri-Là sede del summit Trump-Kim — foto Ap
Sono visibili nella città, ma invisibili ai più.
Per Zakaria Zainal, artefice di uno straordinario archivio fotografico sulla presenza dei Gurkhas a Singapore fin dal 1949, sono oggetto di una narrazione scontata: «Se ne parla in modo epico — dice al manifesto a un tavolino di un caffè di uno dei tanti mall di Singapore — perché in realtà questa narrazione permette di giustificare la loro presenza qui. Non si può mettere in discussione chi difende le istituzioni. Ma chi li paga, quanto, che vita fanno, quale siano i rapporti tra Nepal e Singapore che regolano la loro presenza qui e il loro status di immigrati in una sorta di limbo burocratico, nessuno lo sa davvero. Io li definisco una presenza “visibile e invisibile”: vivono nei quartieri adibiti al loro corpo, non possono sposarsi con singaporeane, vivono qui ma non possono integrarsi. Chi ha famiglia e figli li porta qui, saranno 8mila persone circa ma non si sa neanche il numero preciso. Loro non parlano, sono sottoposti a una sorta di lavaggio del cervello che non gli permette di parlare con nessuno di esterno al corpo».
Zakaria ha iniziato anni fa a raccogliere le foto dei Gurkhas e le esperienze degli uomini del battaglione presenti a Singapore fin dal 1949.
«Qui a Singapore non c’è grande attenzione ai temi dei diritti umani e allo status di persone che non sono singaporeane. Ma i Gurkhas rappresentano davvero una strana eccezione, nessuno sa come sia regolata la loro vita qui. Si sa solo che a una certa età — tra i 40 e i 45 anni — devono tornare in Nepal e ritirarsi. Nel loro paese natale ricevono una pensione ogni anno, fino alla morte. Nessuno sa a quanto ammonti, né chi la paghi».
ZAKARIA nel 2015 è andato in Nepal a raccogliere le loro storie, custodite in un archivio di cui si possono vedere alcuni esempi in un sito (singaporegurkhas.org): arrivò proprio durante il terremoto e vide molti dei Gurkhas andare volontariamente nelle zone colpite per aiutare nei soccorsi.
«La loro presenza mi ha affascinato perché sono interessato alla storia di Singapore. Il 2019 sarà un anniversario: 70 anni della presenza dei Gurkhas qui. Prima dell’indipendenza, Singapore non era una città cosmopolita come oggi. Le etnie, malesi, cinesi e indiane, non convivevano in pace come ora, ma di certo c’è una cosa: i Gurkhas erano e sono ancora oggi “stranieri”; per loro non c’è alcuna possibilità di integrazione. Questo elemento è la cosa che più mi ha interessato: capire come vive un gruppo di persone che qui è sempre straniero».
I Ghurkas vivono in una «zona speciale» riservata: «il resto della popolazione non ci può entrare, ma la narrazione che il governo fa di loro ha fatto sì che nessuno si sia mai posto davvero il problema di come vivono e di quale sia il loro status».
A questo proposito «non c’è alcuna trasparenza, non c’è alcun dibattito, non c’è mai stata una discussione in parlamento, a parte quando ci fu un incidente che mise in difficoltà la loro fama».
Nel 2016 il contingente fu di nuovo al centro di attenzione mediatica perché in occasione di un convegno allo Shangri-La, uno dei Gurkhas sparò contro una macchina che aveva provato a forzare i blocchi di sicurezza. Una persona venne uccisa: la stampa locale sostenne che non si trattava di un terrorista, bensì di uno spacciatore di droga. In ogni caso, un Gurkha da queste parti sembra non possa mai sbagliarsi: se l’ha ucciso c’era un motivo.
A SINGAPORE, in generale, le persone non si pongono il problema: pensano, semplicemente che i Gurkha servano a proteggere la città.
«Il nostro governo è paranoico e quindi giustifica la loro presenza temendo che nello sciagurato caso di nuovi scontri etnici in Malesia o Indonesia, si possano avere incidenti e rivolte anche qui. E quindi ritiene la presenza dei Gurkhas una garanzia. Per questo viene costruito un mito nel quale sono cascati anche i media internazionali».
di Simone Pieranni
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.