Intervista a Jean-Pierre Cabestan, sinologo francese ed esperto di nazionalismo cinese
Si avvicina il sesto plenum del Partito comunista cinese. Non sarà un plenum come gli altri. Per almeno tre motivi: la svolta di Xi Jinping su prosperità comune e rapporti tra stato e privati, l’attesa revisione della storia dalla fondazione del partito, che arriva proprio nell’anno del suo centenario. Il Manifesto ha intervistato Jean-Pierre Cabestan, sinologo francese e capo del dipartimento di studi internazionali alla Hong Kong Baptist University, nonché direttore del programma accademico dell’Unione europea a Hong Kong. Nei suoi libri e pubblicazioni ha spesso analizzato la struttura del Partito comunista cinese e la sua ideologia, concentrandosi in particolare sul tema del nazionalismo.
Professor Cabestan, quanto è diverso il Partito comunista cinese che si avvicina al plenum di novembre rispetto a quello delle origini?
La differenza principale è che nel 1921 era una forza politica tra le altre, ma nel 1949 è diventato un partito-stato. Non è un partito secondo la concezione occidentale, è più di quello. Ha preso controllo dello stato (qualcuno direbbe che lo ha preso in ostaggio) e ne è diventato la spina dorsale. Il Partito si è costantemente evoluto nel corso degli anni. Oggi i suoi membri sono per lo più laureati e 30 milioni sono quadri. Ma è sempre organizzato secondo principi leninisti, cioè dall’alto verso il basso. In superficie è democratico, ma nella sua profondità non lo è. I suoi membri ascoltano le istruzioni che arrivano dall’alto e non hanno molto spazio per discuterne, figuriamoci per metterle in dubbio. Un altro principio cardine è quello dell’opacità. Nessuno sa come opera il Partito e come vengono prese le decisioni, è la più grande società segreta del pianeta. Oltre 60 milioni dei suoi membri non hanno accesso alle informazioni più sensibili e sono lì solo per propagare il discorso del Pcc e mobilitare la società cinese quando è necessario. In termini ideologici, oggi il Partito vuole ancora essere percepito come marxista-leninista ma con Xi Jinping promuove anche i valori cinesi tradizionali. Nei documenti ufficiali, tuttavia, si fa menzione di Marx, Engels, Lenin e talvolta Stalin, non di Confucio. Il confucianesimo è utilizzato soprattutto nella “promozione” esterna. Oggi l’ideologia del Partito è un melting pot fatto di diversi ingredienti, ma alla base c’è sempre il marxismo-leninismo.
Lei citava i valori tradizionali cinesi e sappiamo che Xi insiste molto sull’importanza della storia e dell’archeologia. Che ruolo hanno questi elementi nella retorica del Pcc e in che modo contribuiscono a rafforzare la sua posizione all’interno della società cinese?
Dopo Tian’anmen, il Pcc ha dato molta più importanza al nazionalismo, o a quello che chiama patriottismo. Oggi si tratta di un elemento chiave per la legittimazione del ruolo del Pcc. Il nazionalismo è promosso per unire la società attorno alla sua leadership. Passo dopo passo, il Partito si è ricollegato all’antica civiltà e storia cinese. Per rafforzare il suo ruolo e indebolire il potere negoziale dei partner, ricorda ad nauseam urbi et orbi quanto accadde alla fine del XIX secolo con la guerra dell’oppio e il secolo dell’umiliazione. Molto più che in passato, oggi l’ossessione del Pcc è quella di ripristinare il potere e la centralità della Cina. E il Partito vuole che tutti credano che sia l’unica forza in grado di “make China great again”.
Nelle pubblicazioni ufficiali, come in due commenti apparsi sul Quotidiano del Popolo negli scorsi mesi sul ruolo storico del socialismo, Jiang Zemin e Hu Jintao trovano sempre meno spazio. Questo significa che la “terza rivoluzione” di Xi (dopo quelle di Mao Zedong e Deng Xiaoping) è stata realizzata?
Il Pcc ha iniziato a riscrivere la storia cinese dal primo giorno. C’è stata una grande discontinuità tra la Rivoluzione culturale di Mao e l’era delle riforme di Deng. Jiang e Hu vi hanno sempre fatto riferimento, ma Xi vuole cancellare ogni punto di svolta e guardare alla storia della Repubblica Popolare come un blocco unico, per dimostrare che il Partito ha sempre avuto ragione. Questo è il motivo per cui Jiang e Hu sono stati messi da parte e persino Deng a volte lo è. Oggi Deng non viene più considerato un eroe: certo, è l’uomo che ha lanciato le riforme e aperto il paese ma è anche colui che ha rischiato di aprire la strada a riforme politiche prima di Tian’anmen, inclusa la separazione tra partito e governo. La Cina di Xi è tornata a essere paranoica e militante come quella di Mao e nella sua versione della storia Mao ha sempre avuto ragione. Una versione semplificata che promuove, per dirla con le parole di Xi, un’immagine più “amabile” del Partito e del paese.
In occidente descriviamo spesso la Cina come una “dittatura”. Ma come viene percepito il sistema politico del Pcc all’interno della Cina?
Al Pcc piace dire che non si identifica con i valori occidentali, sottolineando le speciali caratteristiche cinesi. Ma sostiene anche che la Cina sia già democratica e una buona parte della popolazione gli crede. Dal 1949, il Pcc promuove un nuovo tipo di “nuova democrazia” con otto partiti molto piccoli a cui è permesso di esistere ma che non competono per il potere e seguono la sua leadership. Chiunque promuove idee democratiche in senso occidentale viene represso, per esempio durante la campagna dei cento fiori nel 1957 o nel 1989.
Lo spazio per possibili riforme politiche si è definitivamente chiuso?
Ogni graduale apertura darebbe vita a un processo che il Partito teme di non poter controllare. C’era stato un tentativo di andare in quella direzione alla fine degli anni Ottanta, ma alla fine non se ne fece nulla. Oggi sono sicuro che ci sono ancora cinesi, anche all’interno del Pcc, che sostengono quella idea: è una delle ragioni per cui Xi sta combattendo così ferocemente contro il costituzionalismo e la separazione dei poteri. Ma nella mentalità del Pcc una transizione verso qualsiasi altra cosa è inconcepibile. Ovviamente, il Partito vuole mostrare che governa seguendo gli interessi dei cittadini, che “serve il popolo” come disse Mao. Quindi i funzionari organizzano regolarmente sondaggi e quando ricevono lamentele cercano di affrontarle. L’ultima opzione resta la loro repressione per tutelare la stabilità. Ma il Pcc rimane un sistema altamente top-down strutturato in modo militare, mentre allo stesso tempo cerca di dare l’impressione di consultare il popolo e di rappresentarlo.
Quanto è accessibile il Partito dai cittadini cinesi?
Non è facile aderire. In Francia o in Italia vai al tavolo di un caffè, firmi qualche pezzo di carta e diventi membro di un partito. In Cina questa operazione richiede molto più tempo. Devi conoscere qualcuno e far fronte a una prova di un anno. Devi dimostrare che sai fare il tuo lavoro imparando le regole del Partito, mantenerne i segreti e comportarti bene. Ma qual è la motivazione per entrarci? È molto pragmatica, persino cinica. Si cerca di entrare nel Partito perché si sa che può aiutare la tua carriera. Per avere successo in Cina, soprattutto nel settore pubblico, bisogna essere iscritti al Partito. In media, circa un aspirante su dieci riesce a entrare. In passato, Mao voleva reclutare contadini e operai, ma dalle riforme in poi il Pcc cerca persone più istruite e competenti. Oggi, circa la metà dei membri sono laureati. È diventato un partito di elite e se non ne fai parte non ti interessa davvero che cosa succede al suo interno. La maggior parte dei cinesi è depoliticizzato e l’interesse principale è quello di guadagnare dei soldi e vivere una vita migliore, la stessa cosa che accade sostanzialmente in tutto il mondo.
Talvolta entrare nel Partito non è abbastanza. Che cosa ci dice la vicenda di Jack Ma e tutto quanto ne è poi seguito sulla postura del Pcc su economia privata e grandi manager?
L’economia cinese è di tipo misto. Da Deng in poi, la Cina ha imprenditoria privata e ne ha bisogno. IMolti di questi colossi privati non sono pericolosi, anche perché devono lavorare mano nella mano con il governo per avere successo, soprattutto a livello locale. Ma più le compagnie diventano grandi e internazionali e più la loro posizione negoziale nei confronti del Partito migliora. Probabilmente Ma pensava di avere la possibilità di dire la sua su alcune politiche finanziarie e il Partito ha dovuto mostrare a lui e a tutti gli altri che non era così. Ma il Partito ha bisogno di queste grandi compagnie, che sono state una delle componenti fondamentali per il successo economico della Cina. Ciò significa che il Pcc deve far fronte a delle forze sulle quali non ha un controllo completo. Oggi i grandi imprenditori cercando di non farsi coinvolgere dalla politica e non rappresentano ancora un pericolo, ma è una forza potenziale che va riconosciuta e affrontata, perché offre modelli e proposte che possono influenzare il pubblico, la società e le stesse decisioni del governo. Credo che il Partito debba trovare un equilibrio con questi centri di potere finanziario, prima che inizino ad avere o più che altro a esprimere delle idee sul modo in cui il paese dovrebbe funzionare. Barrington Moore disse: “Senza borghesia, nessuna democrazia”. La borghesia è una condizione necessaria ma non sufficiente alla democrazia, però quando le persone hanno abbastanza da mangiare e conducono una vita agiata hanno più tempo per interessarsi alla politica e a che cosa fa il governo con i soldi delle tasse.
Quanto il Partito verso il congresso del 2022 è espressione della leadership di Xi e quanto invece Xi è espressione del Partito?
Lei ha ragione a mettere in dubbio che la Cina sia governata da un uomo solo al comando. Non è mai stato così e mai lo sarà: il Pcc è un’organizzazione gigantesca e molte decisioni sono prese anche lontano da Pechino. Allo stesso tempo, è vero che Xi ha centralizzato il potere nelle sue mani come mai era accaduto dai tempi di Mao. Fino al 2017 c’era un largo consenso intorno alla sua linea dentro il Partito, dopo di che sono aumentati i dubbi, espressi finora in maniera molto cauta. Ma se si guarda alla gente comune, un larghissimo segmento della società cinese è contenta di Xi. E le elite non sono abbastanza forti per organizzare una vera opposizione, anche perché Xi controlla tutto. È stato in grado di eliminare tutti i suoi critici e i potenziali riformatori. Inoltre, non sembra avere fretta di trovare un successore, quindi è probabile che Xi continuerà a plasmare la Cina e il Pcc ancora per un po’ di tempo.
Il mondo occidentale pensava non solo di integrare la Cina nel suo sistema, ma anche di rimodellarla. Sappiamo che questo non è accaduto. Che tipo di equilibrio si può trovare in futuro tra i valori del Pcc e quelli occidentali?
In questo momento ci sono tutti gli ingredienti per una nuova guerra fredda: tensione geopolitica intorno a Taiwan e nei mari cinesi, competizione tecnologica ed economica, guerra commerciale e rivalità ideologica. Ma non credo che neppure un’ipotetica nuova guerra fredda possa portare a dei cambiamenti politici in Cina. Se la Cina cambierà, lo farà da sola e spinta dalla società cinese, in particolare dalle elite, non per quanto accade all’esterno.
Di Lorenzo Lamperti
[Pubblicato su Il Manifesto]
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.