Il 17 giugno 1980, lo scienziato Peng Jiamu si allontanò silenziosamente dal campo lasciando un messaggio: “Vado a est a cercare l’acqua – Peng, 17/6 10:30.” Da quel momento di lui non si è saputo più nulla. Le sue spoglie giacciono da qualche parte tra le dune del Lop Nur, il deserto che si estende per 3000 chilometri quadrati da Korla verso est, lungo le pendici del Kuruktagh, fino al vecchio confine del bacino del Tarim nella regione autonoma dello Xinjiang, nell’estremo Ovest cinese. In passato era il secondo lago salato più grande della Cina. Una delle tappe dell’antica via della seta. Poi negli anni ’70 del secolo scorso, a causa del massiccio sfruttamento ambientale, è diventato una piana sterile, sferzata da frequenti tempeste di sabbia. Una coltre di mistero ne ha avviluppato gli ultimi cento anni di storia. Dopo la rimozione di ogni insediamento umano, tra il 1964 e il 1996, la regione è stata parzialmente destinata a uso militare e utilizzata a intermittenza come sito per test nucleari sotterranei. Le temperature estreme e il movimento delle dune di sabbia hanno causato la morte di centinaia di esploratori. Per la maggior parte privati della notorietà che invece ha reso Peng un eroe della patria. Un martire della scienza. Ma facciamo un passo indietro.
Nato nella provincia del Guangdong nel 1925 e laureato in biochimica presso la Central University of China, al momento della sua sparizione Peng era già uno scienziato affermato con l’incarico di vicepresidente della succursale xinjianese dell’Accademia cinese delle scienze (CAS). Un’attrazione per il Far West la sua che risale al 1956, anno in cui decide di rinunciare agli studi oltremare per partecipare una corposa spedizione organizzata dal governo nella remota regione autonoma alla ricerca del potassio, una delle risorse naturali, utilizzata nella produzione di fertilizzanti, di cui il Lop Nur è particolarmente ricco. “Provo un forte desiderio di esplorare le frontiere. Sento di avere il coraggio di aprire una strada nella natura selvaggia”, spiega il biologo nell’application fatta recapitare al presidente della CAS Guo Moruo. La sua attività di ricerca però viene presto interrotta. Nel ’57, la diagnosi di un tumore maligno lo costringe a recarsi a Shanghai per sottoporsi alle cure. Nonostante il suo stato di salute, dopo un breve periodo di convalescenza, Peng riprende le sue ricerche nel Xinjiang sprezzante dei pericoli. I media di stato ricordano come in condizioni avverse, lo scienziato abbia “attraversato il deserto a piedi. In macchina, a cavallo, a dorso di un mulo e in canoa ha viaggiato per migliaia di miglia.”
Quando nell’estate del 1980 Peng intraprende la sua ultima spedizione al fianco di biologi, geologi e archeologi, il deserto sembra non avere più segreti. Ma il clima si rivela più avverso del previsto. In un articolo pubblicato sulla rivista Social Observation, il suo autista racconta come la carenza di risorse e le difficoltà del viaggio avessero indotto il resto della squadra a chiedere di interrompere la missione. “La scienza è un percorso mai intrapreso da altri”, si sentirono rispondere. Cinque giorni dopo, mentre nella città di Urumqi erano già in corso i preparativi per i soccorsi, Peng ignora gli avvertimenti delle autorità militari e si dirige a Est in cerca dell’acqua. Da allora di lui non si è saputo più nulla. Qualche impronta e carta di caramelle è tutto quanto sono riusciti a rinvenire i soccorritori durante le operazioni di ricerca volute personalmente dal leader Deng Xiaoping. Decine di elicotteri, aeroplani, jeep e centinaia di persone sono state mobilitate nell’arco di 4000 chilometri quadrati per mesi. Al termine della quarta fallimentare spedizione, Peng viene proclamato “martire rivoluzionario”.
Il caso ha lasciato un fiume d’inchiostro sulle pagine dei principali quotidiani locali, mentre negli anni ’90 la storia dell’intrepido scienziato ha ispirato persino una serie tv. Il rinvenimento di resti umani in sei circostanze, tra il 2005 e il 2007, non è servito a fare chiarezza sulla sua misteriosa fine. Piuttosto, ha alimentato nuove fantasiose teorie. C’è chi dice sia stato rapito dagli alieni, chi di averlo avvistato vivo e vegeto in un ristorante di Washington, dando adito alle speculazioni che lo vedrebbero disertore in Unione Sovietica o vittima di un rapimento americano. Complici gli strascichi del Grande Gioco tra le potenze imperialiste a cui il Xinjiang ha fatto da sfondo fino alla metà del Novecento. Ma erano altri tempi. Secondo il capo dei soccorsi Xia Xuncheng, la massiccia presenza di radar militari nell’area non avrebbe mai reso possibile l’intervento aereo di paesi stranieri. Nel suo “In viaggio con Peng Jiamu”, l’esperto risponde alle insinuazioni tratteggiando due possibili scenari. Il ritrovamento di un cammello quasi totalmente sepolto appena tre giorni dopo la partenza parrebbe avvalorare la possibilità che l’esploratore sia rimasto vittima di una tempesta di sabbia. Oppure del collasso di un yardang, le creste rocciose create dall’erosione del vento sotto cui spesso sostano i viaggiatori per ripararsi dalle intemperie. Una morte plausibile e tutto sommato gloriosa. Ma che non è bastata ad azzittire la girandola di voci.
Le ultime indiscrezioni arrivano dalla NTDTV, emittente vicina al movimento della Falun Gong con un debole per il sensazionalismo, secondo la quale, in realtà, il corpo del Peng sarebbe stato rinvenuto nel 2005 da una squadra di esploratori del Gansu con i segni di 27 pugnalate. La notizia è stata diffusa su internet solo tre anni fa da un medico legale insospettito dalla presenza di adipocera, una sostanza organica generalmente prodotta dal corpo in condizioni di umidità. La ricostruzione esatta dei fatti sarebbe avvenuta successivamente per bocca degli stessi assassini: i dieci assistenti di Peng, incapaci di negare l’evidenza, avrebbero raccontato di aver ucciso il collega deciso a concludere la spedizione anche senza le risorse minime necessarie. “Testardo e indebolito fisicamente” dal cancro, l’esploratore rischiava di condannare a morte tutto il team per portare a compimento una missione senza speranza. Il ritrovamento del cadavere non è mai stato reso noto dalle autorità: impensabile che un patriota possa essere stato trucidato dai suoi stessi compagni in una disputa per l’acqua. Meglio lasciarlo riposare sotto la sabbia infocata del Lop Nur.
[Pubblicato su il manifesto]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.