Hanoi vieta la proiezione del film di Barbie. Ma non è l’unica volta che un governo ASEAN frena l’industria dell’intrattenimento che, volontariamente o no, sostiene la versione di Pechino
Sarà anche uno “scarabocchio infantile”, come lo ha definito Warner Bros, ma tanto basta. La mappa che compare alle spalle di Barbie in una scena del trailer è stata sufficiente a far rimuovere il film dalle sale cinematografiche vietnamite. E non sono nemmeno nove tratti, ma otto. La loro posizione, accanto ad un parallelepipedo abbozzato con la scritta “Asia” trasmette un’immagine inequivocabile: quella è la “nine-dash line”, la linea di demarcazione di quei territori nel Mar Cinese meridionale che la Cina rivendica come suoi.
Prima sono scomparsi i poster dai cinema, poi lunedì 26 giugno è arrivata la notizia definitiva: il film di Greta Gerwig non verrà distribuito “a causa di alcune scene raffiguranti la mappa con la nine-dash line , considerata una violazione della sovranità territoriale del Vietnam”. Parola del Consiglio nazionale per la valutazione e la classificazione dei film. Anche i social hanno favorito la prospettiva governativa: rammaricati ma infuriati con i produttori, i netizen vietnamiti si sono altrettanto dimostrati offesi dalla cartina pro Cina.
Anche Manila ha considerato l’opzione della censura totale. “La mappa legittima le rivendicazioni cinesi, che nessun governo al mondo sostiene” ed è “offensiva per tutti” i paesi della regione, sostiene l’analista militare José Antonio Custodio. Il film ha poi ottenuto l’approvazione del Movie and Television Review Classification Board, ma la richiesta è stata quella di offuscare i trattini in questione. Per quanto minoritari rispetto a Unione Europea e Usa, il mercato dell’intrattenimento del Sud-Est asiatico non è così indifferente, spiega Hollywood Reporter: un cult hollywoodiano nelle Filippine e in Vietnam può aggiungere al bilancio di Warner Bros tra i cinque e i dieci milioni di dollari. Un bel rischio se l’orgoglio nazionale iniziasse a contagiare i paesi limitrofi. L’arcipelago asiatico, d’altronde, ha fatto da capofila all’istanza del 2016 presso il tribunale internazionale dell’Aia che denunciava le incursioni cinesi e chiedeva il rispetto della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS).
Nazionalismo pop
Non è certo la prima volta che la “lingua di mucca” (đường lưỡi bò), come viene comunemente chiamata la nine-dash line dai vietnamiti, fa strage di icone pop e film d’importazione. Uno dei casi più chiacchierati era stato quello di Uncharted, pellicola d’azione in uscita ad aprile 2022 e poi mai approvata per la proiezione a causa – ancora un volta – della mappa della discordia.
La stessa “svista” nel 2019 è costata ben 170 dollari di multa al distributore di film vietnamita CJ CGV: aveva commercializzato Il piccolo Yeti, un cartone animato firmato DreamWorks finito nel mirino di Filippine, Vietnam e Malesia per la stessa ragione. Il 2019, d’altronde, è stato uno degli anni di maggiore tensione nel Mar cinese meridionale, causata dalle operazioni del vascello cinese Haiyang Dizhi 8 nei dintorni delle isole Spratly.
La nine-dash line, che si prende circa il 90% dei tre milioni di chilometri quadrati di acque che bagnano l’Asia continentale sud-orientale, ha fatto infuriare il governo filippino con Netflix per la sua comparsa in alcune scene della serie australiana Pine Gap. Tanto che il gigante dello streaming ha proceduto con la loro rimozione dalla piattaforma.
Dall’altra parte, affermano i critici, ci sarebbe un continuo processo di autocensura e condiscendenza nei confronti della Cina da parte dei giganti dell’industria culturale. Tra investimenti milionari nelle case di produzione Usa in arrivo dalla Rpc e l’evidente preponderanza del mercato cinese – il secondo al mondo per ampiezza – ecco che anche Hollywood sarebbe incline alle sottigliezze del soft power cinese.
Nel 2016 ci avevano pensato un gruppo bipartisan di sedici membri del Congresso a denunciare il giro di affari cinesi intorno all’industria dell’intrattenimento statunitense, ottenendo il consenso del Comitato sugli investimenti esteri negli Stati Uniti (CFIUS). Nei paesi ASEAN, almeno in quelli più agguerriti nei confronti delle incursioni cinesi nelle aree rivendicate, il processo è meno complicato: ci pensa direttamente il governo.
Non solo cinema
La battaglia retorica non si limita alla sfera cinematografica. Inizialmente denunciata sui social, la controversa grafica sul sito degli organizzatori della tappa vietnamita del gruppo k-pop Blackpink ha generato le stesse minacce di boicottaggio. l’impresa, iMe Entertainment Group Asia, ha presto risposto alle richieste del ministero della Cultura promettendo di rimuovere la mappa del tour. E spiega in un comunicato: “La mappa non rappresenta nello specifico il territorio di alcun paese, siamo consapevoli e rispettiamo la sovranità e la cultura di ogni paese”.
Hanoi non ha ceduto neanche quando è stato il turno di validare i visti di ingresso nel paese sui nuovi passaporti cinesi. Nel 2012 tali passaporti riportavano chiaramente la mappa che dal 1949 giustificherebbe la storica appartenenza dei territori del Mar Cinese Meridionale alla Cina. E il Vietnam ha quindi chiesto di rilasciare dei documenti a parte, anziché timbrare le pagine dedicate.
Censura e narrazioni interne
In paesi come il Vietnam, la censura può essere anche un’arma di gestione del sentimento popolare. E la cultura una delle valvole di sfogo concesse dal Partito. È stato il caso dell’ondata di manifestazioni che nel 2011 e nel 2014 ha portato masse di cittadini arrabbiati per le strade delle principali città vietnamite, il tutto per protestare contro le manovre cinesi nelle aree rivendicate di Hoàng Sa (Isole Paracelso) e Trường Sa (Isole Spratly).
Abbassare il linguaggio del nazionalismo all’industria della cultura potrebbe permettere anche questo. Cosa meglio di un successo cinematografico globale per accendere la fiamma della partecipazione pubblica dove poche – se non nulle – sono le sedi del dissenso? Un processo che avviene, al contrario, in Cina, dove delle definizioni geografiche su una t-shirt possono far scattare la messa al bando di un brand.
Il filosofo Alfred Korzybski sosteneva che “la mappa non è il territorio”, ma un costrutto ideologico. Per i paesi asiatici che si affacciano sul Mar Cinese Meridionale la mappa è qualcosa di più: una storia sempre necessaria, e mai uno “scarabocchio”.
Formazione in Lingua e letteratura cinese e specializzazione in scienze internazionali, scrive di temi ambientali per China Files con la rubrica “Sustainalytics”. Collabora con diverse testate ed emittenti radio, occupandosi soprattutto di energia e sostenibilità ambientale.