Lam Wing-kee, liberato su cauzione dopo 8 mesi di detenzione, contrariamente a quanto fatto finora dai suoi colleghi decide di rivelare quanto successo: «Mi hanno rapito forze speciali di Pechino e obbligato a rendere una falsa confessione in tv». Le autorità cinesi gli hanno intimato anche di «consegnare gli archivi con i nomi dei clienti che avevano acquistato i libri della Causeway Bay» di Hong Kong, specializzata nella pubblicazione di testi considerati «illegali».Né militari, né forze di sicurezza, né tanto meno poliziotti. A interrogare Lam Wing-kee, uno dei cinque librai ed editori di Hong Kong scomparsi nei mesi scorsi e, con molta probabilità, rapiti da unità cinesi, sarebbero stati i componenti di un gruppo speciale di indagine. Una sorta di unità d’élite che risponderebbe soltanto ai massimi leader del Partito comunista cinese. Per intendersi, secondo quanto è stato ricostruito, si tratta degli stessi uomini che avrebbero condotto le indagini contro l’ex zar della sicurezza cinese Zhou Yongkang e altri «alti papaveri» accusati di corruzione. È stato lo stesso Lam a raccontare i dettagli degli otto mesi di detenzione in una conferenza stampa convocata per annunciare l’intenzione di non fare ritorno nella Cina continentale. Lam è libero su cauzione.
Secondo quanto ha raccontato avrebbe dovuto riportare alle autorità cinesi gli archivi con i nomi dei clienti che aveva acquistato i libri della Causeway Bay, la libreria di Hong Kong specializzata nella pubblicazione di volumi scandalistici sulla vita privata della dirigenza di Pechino, attorno alla quale gravitavano sia lui sia i suoi quattro compagni di sventura. Libri di cui i cinesi in visita nell’ex colonia britannica fanno incetta per carpire i segreti delle alte sfere di Zhongnanhai, il Cremlino cinese. In particolare a destare scandalo sarebbe stato un volume sulle amanti di Xi Jinping, capace quindi di gettare fango sull’immagine del presidente cinese e della first lady, la cantante d’opera tradizionale (nonché componente dell’esercito) Peng Liyuan.
La conferenza stampa di Lam ha rotto il silenzio e la riservatezza finora mantenute dai cinque librai. Il sessantunenne ha raccontato di essere stato sequestrato al confine tra Hong Kong e la Cina. Bendato e ammanettato è stato trasportato fino a Ningbo, città distante un migliaio di chilometri dall’ex colonia britannica. Li è stato rinchiuso da novembre fino allo scorso marzo, in una piccola cella d’isolamento tenuto sotto sorveglianza 24 ore su 24, senza contatti con la famiglia. Lam ha poi ammesso di essere stato forzato a rendere la confessione televisiva nella quale ammise di essere coinvolto in traffici illeciti, vale a dire nello smercio dei libri proibiti. Una pratica peraltro, quella delle pubbliche ammissioni in tv, che sta diventando abituale, soprattutto in casi di una certa notorietà – come dimostrano le vicende della giornalista Gao Yu, accusata di aver diffuso segreti di Stato, o dell’operatore umanitario svedese Peter Dahlin. Da marzo fino a qualche giorno fa Lam è stato invece segregato in un’altra località nella provincia meridionale del Guangdong.
«Sono qui per dire al mondo intero che questo incidente non riguarda solo me o la mia libreria. È un pericolo che minaccia i valori fondamentali che la gente di Hong Kong deve salvaguardare. Non ci si deve inchinare al potere», ha sostenuto il libraio.
La vicenda dei cinque scomparsi d’altra parte si inserisce nel crescente malcontento in ampi strati della popolazione di Hong Kong contro l’influenza sempre più massiccia di Pechino e i timori che stiano venendo meno i principi sanciti dalla Basic Law, la costituzione locale. L’ex colonia britannica ritornata sotto la sovranità cinese nel 1997 gode comunque di una grande autonomia (comprese certezza nel sistema giudiziario di stampo britannico), che secondo gli impegni presi da Pechino con Londra dovrà essere garantita almeno fino al 2047. Senza contare che quelle che appaiono a tutti gli effetti come delle extraordinary rendition, hanno mostrato una capacità cinese di agire oltre i propri confini. Uno dei cinque librai Gu Minhai, che peraltro ha passaporto svedese e si trova ancora in Cina, è stato infatti prelevato in Thailandia.
L’atteggiamento assertivo di Lam Wing-kee non è tuttavia condiviso da tutti gli altri suoi colleghi. Anche in questo caso venendo meno alla riservatezza mantenuta sin dalla scarcerazione lo scorso marzo, Lee Bo, l’altro del gruppo ad avere un passaporto straniero, questa volta britannico, ha smentito su Facebook le dichiarazioni di Lam. In particolare avrebbe negato non soltanto di essere stato rapito, ma soprattutto di aver passato documenti con i nomi dei clienti della libreria alle autorità cinesi, gli stessi che gli agenti avrebbero mostrato a Lam. Dal canto suo il Chief Executive facente funzioni a Hong Kong, John Tsang Chun-wah ha rimarcato che l’azione di agenti stranieri è «illegale» nonché «inaccettabile».
[Scritto per il Fatto quotidiano online*