Il kung fu verso le Olimpiadi, tra soft power e nazionalismo

In by Gabriele Battaglia

Tra alti e bassi, sembra sia stata proprio la spiccata coloritura nazionalista ad aver assicurato al kung fu (termine che dagli anni ’70 ha soverchiato l’originale wushu) i favori dell’establishment durante il secolo scorso. Mantenendosi in equilibrio tra esaltazione della Patria e sfida all’ordine costituito, una volta riabilitato dalle purghe della Rivoluzione culturale, il kung fu è diventato una specie di sport nazionale. Il prossimo passo è renderlo una disciplina olimpionica.
Si racconta che, quando nel 1974 gli fu diagnosticata la cataratta, Mao Zedong si trovò costretto ad abbandonare il piacere della lettura per ripiegare sui film. L’onere di selezionare le pellicole ricadde su Liu Qingtang, viceministro della Cultura vicino alla moglie del Grande Timoniere, Jiang Qing, che negli anni ’60 si fece promotrice di una cultura proletaria e rivoluzionaria. Liu riporta che, dopo aver visionato biografie di grandi personaggi come Abraham Lincoln e Napoleone, Mao si sia rivolto al cinema hongkonghese di «cappa e spada» (wuxia), e che, visti Il furore della Cina colpisce ancora (1971), Dalla Cina con Furore (1972) e L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente (1972), si sia lasciato andare a lacrime ed elogi. «Bruce Lee è un eroe!», esclamò Mao. Tanto gli piacque Dalla Cina con Furore che se lo guardò tre volte, un «onore» che Liu non ricorda sia mai stato concesso a nessun’altro film. Come ironizza sulle colonne del China Daily il critico cinematografico Raymond Zhou, se l’aneddoto fosse stato reso noto, probabilmente Bruce Lee sarebbe finito nel pantheon delle figure modello alla stregua dell’eroe comunista Lei Feng; primo ma non ultimo praticante a distinguersi per patriottismo quel fatidico anno.

Proprio nel ’74, una troupe di artisti marziali fu inviata negli Stati Uniti per proseguire l’opera di disgelo tra le due sponde del Pacifico, inaugurata due anni prima con la «diplomazia del ping pong» di Glenn Cowan e Zhuang Zedong. Prescelto tra i fortunati «ambasciatori del kung fu», un Jet Li ancora pubescente ricorda di essersi esibito in mirabolanti acrobazie nel giardino della Casa Bianca e che, ricevuto l’invito del presidente americano Richard Nixon a prestare servizio come sua guardia del corpo, gli avesse candidamente risposto: «Non voglio proteggere nessuno. Voglio soltanto difendere il miliardo di connazionali cinese»

Tra alti e bassi, sembra sia stata proprio la spiccata coloritura nazionalista ad aver assicurato al kung fu (termine che dagli anni ’70 ha soverchiato l’originale wushu) i favori dell’establishment durante il secolo scorso. Mantenendosi in equilibrio tra esaltazione della Patria e sfida all’ordine costituito, nel corso della storia l’antica arte cinese è stata fida alleata delle dinastie Tang (618-907) e Ming (1368–1644), ma fiera oppositrice dei reggenti mancesi (1644-1911) nell’ambito di un movimento di rivalutazione dell’etnia dominante Han contro l’invasore straniero. «Fan Qing Fu Ming»
 ("combattiamo i Qing, restauriamo i Ming") era il motto delle confraternite segrete a cui erano affiliati molti noti combattenti.

Con l’istituzione della Repubblica di Cina (1912), il wushu diventò un mezzo per promuovere la cultura cinese e la difesa nazionale dopo l’umiliazione incassata ad opera delle potenze imperialiste nell”800. Venne inserito per la prima volta nei corsi scolastici e universitari; nacquero le prime associazioni, dalla Jingwu Society di Shanghai, estesa negli anni ’20 a livello nazionale con ramificazione che raggiunsero in breve il Sud-est asiatico, alla Central National Skills Research Academy, fondata dai nazionalisti di Chiang Kai-shek a Nanchino al fine di avviare l’insegnamento e lo studio delle arti marziali cinesi attraverso una struttura tentacolare in grado di raggiungere 24 province.

Incoraggiata dall’agenda politica del momento, tra il 1928 e il 1931 la fascinazione per il wushu (all’epoca eloquentemente ribattezzato guoshu: «arte nazionale») contagiò l’industria cinematografica locale, portando alla produzione di oltre 227 film sul tema. Ma di lì a poco l’invasione giapponese costrinse accademia e maestri a lasciare la capitale del sud per cercare riparo nel vicinato asiatico: Hong Kong, Taiwan e Singapore divennero mete predilette della diaspora marziale, affermandosi negli anni come gelose custodi della «tradizione cinese originale»; non soltanto della scrittura in caratteri complessi, messa in soffitta sulla mainland negli anni ’60, ma anche della più sofisticata arte di combattimento cinese. Sarà la Rivoluzione culturale a relegare definitivamente il kung fu nell’oblio riservato alle «pratiche feudali», fino a quando le riforme e l’apertura anni ’80 non avviarono un periodo di rivalutazione delle tradizioni precedentemente considerate responsabili dell’arretratezza cui era stata relegata la Cina; non più Celeste Impero ma  «malata d’Asia».

Nel 1985 si tenne il primo International Wushu Invitational Tournament, con la partecipazione di 17 paesi e regioni; poi nel 1990 nacque l’International Wushu Federation, a cui si deve l’organizzazione ogni due anni delle World Wushu Championships, competizione che riunisce praticanti da tutto il mondo ma che, guarda un po’, vede proprio la Repubblica popolare dominare per numero di medaglie. Il prossimo passo è rendere il wushu uno sport olimpico alla pari del karate giapponese e del taekwondo coreano. Un riconoscimento che, con grande disappunto di Pechino, stenta ad arrivare, malgrado la popolarità planetaria riscossa dalle gesta del goffo panda Po della Dreamworks.

Da quando il Comitato Olimpico Internazionale (IOC) ha permesso agli organizzatori di Pechino 2008 di tenere un torneo di wushu – in parallelo ai Giochi ufficiali-, le arti marziali cinesi hanno guadagnato una spinta su scala globale, come dimostra l’espansione dell’IWUF, passata negli ultimi otto anni da 116 a 149 paesi membri per un totale di 200 milioni di praticanti. Non abbastanza, comunque, per permettere al kung fu di rientrare nella cerchia dei 32 sport olimpici. Lo scorso autunno, incassando con eleganza il mancato ingresso alle Olimpiadi di Tokyo 2020, il vicepresidente dell’IWUF ha dichiarato che «siamo contrariati ma non sorpresi […] il 2024 sarà l’anno del wushu».

Mentre un’inclusione nei Giochi strizza l’occhio alle squattrinate federazioni in cerca di sponsor, -specie in hub emergenti come Russia e Iran-, per Pechino c’è in ballo molto di più. In un momento in cui la leadership àncora la propria legittimità politica a slogan quali «Sogno Cinese» «Grande rinascita della Nazione», un debutto alle Olimpiadi costituirebbe un’importante vittoria diplomatica, dato il contesto tutto occidentale in cui la manifestazione è nata e si è evoluta. Se si considera la frequenza con cui l’IOC si è dimostrato suscettibile alle lusinghe dei poteri forti unitamente all’autoritarismo esercitato dal gigante asiatico in seno alle organizzazioni internazionali, la sconfitta appare ancora più inspiegabile. O, al contrario, forse molto più prevedibile. Basta pensare alla reazione allarmata suscitata alle nostre latitudini dalla moltiplicazione degli Istituti Confucio.

Oltre agli ostacoli tecnici (il wushu non nasce come sport agonistico ed è un termine generico che abbraccia 130 scuole marziali, ognuna con regole differenti), non è da escludere che il rigido controllo esercitato del governo cinese esponga il kung fu alle stesse critiche riservate ai vari «cavalli di Troia» del soft power cinese. Questo perché dalla Fondazione della Repubblica popolare in poi, per wushu (letteralmente «arte militare») si intende quell’insieme di pratiche codificate e sponsorizzate dallo Stato cinese che hanno ormai ben poco a vedere con l’antica arte celebrata nelle pellicole patinate di Hong Kong, dove patriottici combattenti cinesi solevano mettere al tappeto pugili russi e karateki giapponesi. Ad arriva nelle scuole e nelle università della Greater China – e, se l’IOC lo vorrà, alle Olimpiadi- è una rivisitazione in chiave ginnica finalizzata alla cura del corpo, non più all’autodifesa (fatta eccezione per il sanda: lo sparring). Ma la dura legge del marketing richiede siano suggestioni lontane a stuzzicare l’immaginario collettivo.

E’ sul monte Songshan, presso il monastero di Shaolin, che il kung fu e il buddhismo chan (lo zen cinese) videro la luce nel V secolo d. C. – si dice per opera del monaco indiano Bodhidharma. Tutt’oggi intorno all’antico monastero, sotto il marchio Henan Shaolin Temple Industrial Development Co. fiorisce un’industria multimilionaria che conta 50 scuole, quasi 50mila studenti, e 1 milione di turisti l’anno rendendo Shaolin uno dei villaggi più ricchi della Cina. A tenere i fili di tale impero economico – che arriva ad avviluppare Londra e Berlino- è il lussurioso abate Shi Yongxin, da anni al centro del gossip cinese a causa del suo debole per automobili costose e donne di malaffare. Non male per uno che oltre a essere vicepresidente della Buddhist Association è anche membro dell’Assemblea Nazionale del Popolo, il Parlamento cinese.

Mentre gli stravizi di Shi si sono rincorsi sulla stampa internazionale attraverso circa un decennio, è soltanto lo scorso anno che l’annuncio di un accordo da 380 milioni di dollari per l’apertura di una succursale in Australia ha finalmente messo in allarme le autorità provinciali. Sembrava già di vedere il leader religioso condividere dietro le sbarre la sorte toccata negli ultimi tre anni a molti altri illustri corrotti. Poi l’inchiesta si è arenata per mancanza di prove e il caso è uscito lentamente dai radar dei media. Per il bene di Shaolin e del soft power cinese.

[Scritto per il manifesto]