Ricordate il “nuovo Grande Gioco”? Agli inizi degli anni Duemila, qualcuno aveva etichettato così la competizione tra Cina, Russia e Stati Uniti in Asia Centrale, rievocando la rivalità regionale tra impero russo e britannico nel XIX secolo. Ebbene, negli ultimi anni il “Grande Gioco” è diventato un “singolo” tra i due ingombranti vicini: la Russia, che da vecchia Madre ha continuato a garantire la sicurezza dell’area ex sovietica, e la Cina, la potenza emergente che con il suo peso economico si è gradualmente imposta nelle dinamiche interne, arrivando a esercitare un maggiore ascendente anche sugli equilibri politici e sul mantenimento della sicurezza nel quadrante minacciato dal terrorismo islamico. Con la pandemia da coronavirus c’è chi prevede che Pechino comincerà presto a palleggiare da solo contro il muro.
Pechino e i suoi rapporti diretti con gli “stan”
Ma facciamo un passo indietro. Dalla caduta dell’Unione Sovietica il gigante asiatico non ha lesinato gli sforzi per cercare di recuperare il tempo perduto stabilendo rapporti diretti con gli “stan”, gestiti fino agli anni Novanta attraverso il filtro di Mosca. Nel 2009, il Dragone ha soppiantato la Russia diventando primo partner commerciale dell’Asia Centrale con 10 miliardi di dollari di scambi contro i 527 milioni del 1992. Di più. Ha cominciato a ridisegnare il network di infrastrutture energetiche d’epoca sovietica entrando a gamba tesa negli affari di Mosca. Ormai la Cina controlla un quarto del petrolio kazako ed è il primo acquirente di gas turkmeno. Tiene a galla Kirghizistan e Tagikistan finanziando un terzo del debito estero di Bishkek e coprendo il 42 per cento dei conti in rosso accumulati da Dushambe.
L’Asia Centrale: un ponte tra Oriente e Occidente
La nascita della Belt Road Initiative (BRI) – annunciata nel 2013 in Kazakistan – si colloca alla fine di un lungo corteggiamento cominciato nel 1994, quando l’allora premier cinese Li Peng passò in rassegna tutta l’Asia Centrale – Tagikistan escluso – trascinandosi al seguito una truppa di imprenditori per promuovere lo sviluppo di “una nuova Via della Seta” a base di “infrastrutture moderne”. Il resto è storia recente. Sette anni fa, il presidente cinese Xi Jinping ha individuato nella regione, ricca di risorse naturali, uno snodo cruciale per stabilizzare e rilanciare economicamente le arretrate regioni della Cina occidentale, che condividono confini ed etnie con Tagikistan, Kirghizistan e Kazakistan. Per sua vocazione naturale, l’Asia Centrale si candidava a ponte tra Oriente e Occidente.
La Nato asiatica e il soft power cinese
Da allora Pechino ha guadagnato terreno a scapito di Mosca coltivando il proprio soft power (con borse di studio e l’istituzione di oltre 20 centri specializzati in studi centroasiatici), cementando la propria presenza militare con esercitazioni sulle alture del Pamir, e rafforzando la propria posizione all’interno della Shanghai Cooperation Organization, la “Nato asiatica” che dopo aver svolto per il primo decennio funzioni di antiterrorismo è stata arricchita di finalità economiche in previsione di possibili sinergie con la Bri e l’Unione economica eurasiatica. Nonostante l’iniziale reticenza di Mosca, la spartizione dei vecchi ruoli è andata sfumando. Agli attori regionali, inizialmente, la cosa stava anche bene. Nell’ottica di un processo di “derussificazione” nello spazio postsovietico, l’avanzata cinese serviva a controbilanciare l’influenza moscovita, fornendo un nuovo modello di riferimento a base di capitalismo di stato, sistema politico monopartitico e scarsa tutela dei diritti umani. Risultato: nel 2018, gli investimenti diretti esteri cinesi nei cinque “stan” hanno raggiunto i 14,7 miliardi di dollari rispetto agli 8,9 miliardi registrati al momento del lancio della Bri.
Il nuovo “impero” è economicamente e politicamente instabile
Poi è successo qualcosa. Come spiega Jonathan Hillman in The Emperor’s New Road: China and the Project of the Century, a oggi la nuova via della seta si presenta come un insieme di «iniziative mal coordinate più che una vera e propria strategia». Nonostante le ricorrenti accuse di “neocolonialismo”, il gigante asiatico non sembra gestire al meglio il nuovo “impero”. L’insostenibilità economica degli investimenti cinesi, in Asia Centrale, è stata amplificata dalla corruzione endemica, mentre la stabilità assicurata per anni dalla longevità politica dei leader sovietici non è più così scontata dopo la successione in Kazakistan e Uzbekistan, e la recente insurrezione popolare in Kirghizistan. A conti fatti, nell’ultimo lustro l’heartland ha perso terreno a vantaggio del Sudest asiatico, dove si concentra quasi un terzo degli investimenti complessivi della Bri. Ma questo non implica necessariamente un disimpegno del Dragone dalle steppe centroasiatiche, quanto piuttosto un cambiamento di rotta. Un cambiamento reso anche più necessario dall’arrivo di Covid-19 .
Il virus fa cambiare rotta ai cinesi
Con gli Stati Uniti in balia del coronavirus e la Russia schienata dal crollo dei prezzi del petrolio, la Cina rimane l’unica ancora di salvezza per la regione. Dopo un primo illusorio contenimento dell’epidemia, la chiusura dei confini di Kazakistan, Kirghizistan e Uzbekistan non solo non ha prevenuto la diffusione del contagio – secondo cifre sottostimate sono oltre 162.000 le infezioni in Kazakistan, il paese centroasiatico con il bilancio più elevato. Ma ha persino aggravato le difficoltà economiche della regione interrompendo la catena di approvvigionamento, impedendo il ritorno dei lavoratori migranti e facendo schizzare l’inflazione. Secondo la Banca Mondiale, l’Asia Centrale chiuderà il 2020 con una contrazione della crescita del 5,4%. Al contrario la locomotiva cinese ha ripreso a viaggiare in terreno positivo. Qualche incidente di percorso c’è stato. A giugno il ministero degli Esteri cinese aveva ammesso che il 20% dei progetti Bri è risultato “gravemente compromesso” dalla pandemia, mentre il 30-40% lo è stato parzialmente. Ma le ultime statistiche ufficiali danno gli investimenti cinesi lungo la via della seta in crescita del 30% nei primi tre trimestri. Secondo dati dell’Amministrazione generale delle dogane cinese il commercio estero con i paesi Bri è aumentato dell’1,5% fino a oltrepassare i mille miliardi di dollari.
Nuovi piani strategici
Nonostante le molte criticità, l’interessamento per l’Asia Centrale non sembra prossimo a svanire. Lo scorso 16 luglio, per la prima volta, Pechino ha chiamato virtualmente a raccolta i ministri degli Esteri di tutti e cinque gli “stan” replicando un format già utilizzato nella regione da Giappone, Corea del Sud e Unione europea. L’iniziativa, che rompe con l’usuale predilezione cinese per i bilaterali, ha spianato la strada per la visita fisica del capo della diplomazia cinese Wang Yi in Kazakistan e Kirghizistan poco prima che la contestazione del voto gettasse Bishkek nella peggiore crisi politica dagli scontri etnici del 2010. In quell’occasione, non è stata fatta nemmeno una parola dei nuovi investimenti da 600 milioni di dollari preannunciati a giugno da Pechino e Nursultan. In compenso, Wang ha promesso il supporto cinese «fino a quando la pandemia sarà completamente sconfitta».
La Nuova Via della Seta “sanitaria”…
In tempi di virus e difficoltà economiche globali, i capitali cinesi saranno in buona parte dirottati nel sistema sanitario locale, noto per le condizioni ospedaliere non ottimali, il limitato accesso ai farmaci e le carenze di un personale medico mal pagato. Dall’inizio dell’epidemia, la regione ha beneficiato di donazioni, forniture sanitarie e assistenza medica a distanza, messi a disposizione tanto dalle autorità provinciali quanto dalle aziende cinesi presenti nella regione, come Huaxin, Sany, Sinopec, China Construction e China Road and Bridge Corporation. Anche la Sco ha fatto la sua parte organizzando un seminario in tandem con Alibaba e l’Università di Medicina di Wenzhou. Secondo l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua, a seguito dell’ultimo meeting tra i rispettivi ministri degli Esteri «Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan e Mongolia hanno deciso di costruire insieme una fortezza antipandemia, una via della seta sanitaria e una comunità della salute per tutti». I partner regionali non hanno perso tempo. Solo pochi giorni fa l’Uzbekistan ha annunciato che 5000 volontari si sottoporranno alla sperimentazione del vaccino prodotto dalla Anhui Zhifei Longcom Biopharmaceutical nella speranza di ottenere un accesso privilegiato nel caso in cui il farmaco dovesse rivelarsi efficace.
Quello che sta avvenendo in Asia Centrale rispecchia su piccola scala il nuovo corso della Bri. Come spiega su “Eurasianet” Dirk van der Kley, Research Fellow presso l’Australian National University, Pechino non abbandonerà l’heartland, ma probabilmente cambierà la natura del suo attivismo economico puntando sempre meno sul finanziamento delle infrastrutture tradizionali per privilegiare gli investimenti diretti esteri, l’export di sovracapacità industriale e l’importazione di prodotti agricoli. Un segnale in tal senso giunge dal progressivo calo del debito accumulato da Tagikistan e Kirghizistan, i due paesi centroasiatici più dipendenti dai capitali cinesi. Secondo “Eurasianet”, l’ultimo prestito consistente concesso a Bishkek e Dushambe risale addirittura al 2014. Solo pochi giorni fa l’Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib), la superbanca nata per colmare il deficit infrastrutturale dei paesi asiatici, ha annunciato la creazione di un dipartimento dedicato alla sanità e all’istruzione.
… e informatizzata
Con queste premesse è lecito attendersi un maggior protagonismo non solo della via della seta sanitaria ma anche della sua declinazione digitale: telemedicina, e-commerce, e-learning e fintech potrebbero in futuro sostituire le grandi opere. Il motivo lo sintetizza il Csis così: «Rispetto ai massicci progetti energetici e dei trasporti che hanno dominato i primi anni della Bri quelli che coinvolgono la tecnologia dell’informazione e della comunicazione sono generalmente a basso costo, meno visibili e destabilizzanti per le comunità locali, più semplici da realizzare e facili da monetizzare. Tutte qualità che li rendono meno rischiosi e più attraenti per gli investitori». Le cinesi Huawei, Ceiec, Citic Group e Costar Group sono già presenti da anni in Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan con l’istallazione di sistemi di videosorveglianza contro il crimine e gli incidenti stradali. Tashkent, Dushambe e Nursultan hanno speso ciascuna tra i 21 e i 22 milioni di dollari per realizzare il progetto “Safe City” in partnership con Huawei.
Il rigurgito etnonazionalista anticinese
Quello della sicurezza è un tema che sta a cuore tanto alle autocrazie centroasiatiche quanto al regime comunista cinese. Assicurare la stabilità dei paesi partner è diventata una priorità per Pechino. Soprattutto da quando, nel 2016, l’ambasciata cinese di Bishkek è stata colpita da un attacco dinamitardo attribuito a militanti uiguri, la minoranza etnica musulmana che l’Asia Centrale condivide con la regione autonoma del Xinjiang aldilà del confine con la Cina. Dopo un ventennio di guerra a bassa intensità, l’astio degli uiguri nei confronti delle politiche cinesi ha finito per contagiare anche le altre etnie centroasiatiche. La reclusione di kazaki e kirghisi nei “centri per la rieducazione” del Xinjiang hanno infiammato l’opinione pubblica nei paesi d’origine. A febbraio accese proteste anticinesi hanno costretto alla cancellazione di un progetto BRI da 275 milioni di dollari per la costruzione di un hub logistico ad At-Bashy, nel Kirghizistan settentrionale. Nonostante il controllo sulle informazioni da oltrefrontiera, ci sono le prime avvisaglie di un latente rigurgito etnonazionalista. Secondo Oxus Society for Central Asian Affairs, negli ultimi due anni e mezzo si sono verificate almeno 98 manifestazioni contro la penetrazione cinese nella regione. Non è facile quantificare l’impatto del malumore popolare sugli interessi economici del gigante asiatico. Con la Russia e gli Stati Uniti messi fuori gioco da COVID, difficilmente i “nuovi khanati” sapranno dire di no ai finanziamenti cinesi. Ma è indicativa l’assenza di Kazakistan e Kirghizistan tra i 50 paesi firmatari della mozione presentata da Pechino per difendere le proprie politiche etniche in sede Onu.
[Pubblicato su OGZero]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.