Il fallito colpo di Stato messo in atto dall’esercito turco, in Cina ha ricevuto un’attenzione limitata sui social, ma non è passato del tutto inosservato. Nella giornata di sabato, il ministro degli Esteri Wang Yi ha invitato Ankara a ristabilire l’ordine non appena possibile, smentendo la presenza di cittadini della Repubblica popolare nel computo delle vittime. Normalmente Pechino si tiene alla larga dal prendere posizioni troppo nette davanti a questioni che riguardano la politica interna degli altri Paesi, tuttavia negli ultimi tempi non ha esitato ad esternare le proprie preoccupazioni davanti ai repentini cambi di regime nelle regioni in cui gli interessi cinesi sono più accentuati. Medio oriente e Maghreb in primis.
Mentre al di qua la Muraglia la foto simbolo del mancato golpe, quella di un uomo che fronteggia un carrarmato vicino all’aeroporto Ataturk di Istanbul, veniva accostata al «rivoltoso sconosciuto» di piazza Tian’anmen, a circolare su Weibo, il Twitter cinese, erano sopratutto informazioni di carattere pratico per i connazionali in Turchia. E se l’analista politico Fang Shaowei ha dichiarato sul suo account che, con sommo dispiacere dei liberali, «la possibilità che un golpe avvenga in Cina è pari a zero», un altro utente ha ringraziato l’ateismo di Stato per aver salvato l’ex Impero Celeste dalla trappola della «fede religiosa», responsabile dell’ondata di radicalismo vissuta oggigiorno dal mondo arabo.
Ma, come fa notare qualcuno, negli ultimi giorni la rete cinese è stata rapita da tematiche ben più frivole. «Weibo è tutto preso dall’attrice Zhao Wei. L’attacco terroristico di Nizza e il colpo di Stato militare in Turchia non sono riusciti ad offuscare la sua popolarità! Spero davvero che lei rimarrà sempre nel mio cuore, mia dolce, gentile Pei Rong», scrive un utente riferendosi ad uno dei personaggi interpretati dalla star cinese finita recentemente nell’occhio del ciclone per aver assoldato nel cast del suo ultimo film da regista un attore taiwanese filo-indipendentista.
Il golpe non ha comunque lasciato indifferente la stampa governativa. «L’Instabilità della Turchia potrebbe causare un effetto a catena» titolava domenica il semiufficiale Global Times, riferendosi all’attacco sferrato a Erevan contro una stazione di polizia dal gruppo d’opposizione «Nuova Armenia» a poche ore dall’escalation turca. L’editoriale, dai toni insolitamente pacati, continua commentando l’opera di pulizia messa in atto dal presidente turco Erdogan per eliminare i traditori, non senza criticare tra le righe i limiti tanto del leader quanto dell’esercito. Definendo la Turchia «il perno dell’Asia occidentale», il tabloid nazionalista ricorda che «i Paesi islamici del Medio Oriente sono spesso governati da una figura autoritaria, sia questa un re, un leader politico eletto dal popolo, o un leader religioso. Da quando ha aderito alla NATO, la Turchia non ha più avuto una figura politica potente come il padre fondatore Mustafa Kemal Atatürk. L’esercito turco, suscettibili all’influenza della NATO, è considerato come la forza principale dietro al consolidamento del processo di secolarizzazione della Turchia. I precedenti colpi di Stato [tre dal 1960 a oggi con scadenza decennale] sono riusciti a interrompere la crescita del potere conservatore». D’altronde, Pechino ha sperimentato sulla propria pelle quanto Ankara sia esposta alle pressioni dell’Alleanza dei 28, culminate lo scorso inverno nell‘annullamento della gara d’appalto internazionale sulla fornitura dei sistemi di difesa missilistica precedentemente vinta dalla China Precision Machinery Import and Export Corporation.
In un editoriale a caldo, sabato il quotidiano aveva attribuito alla rivolta militare «significati di vasta portata»: «la Turchia è ben lungi dall’aver completato il movimento secolare che ha avuto inizio un secolo fa. Il Paese è ancora in bilico tra l’accettazione delle istituzioni politiche occidentali e la difesa della cultura islamica tradizionale». Poi aggiungeva che «in questo fallito colpo di stato, l’esercito ha perso contro il governo democraticamente eletto e i carri armati non sono stati in grado di conquistare il pubblico inerme. Questo potrebbe suggerire che il Medio Oriente sta attraversando una fase di cambiamento fondamentale. Invece di riuscire a innescare una rivoluzione colorata, i militari hanno incassato un duro colpo. La resa dei soldati braccia alzate ai cittadini è senza precedenti».
All’indomani del fallito colpo di Stato, l’Economic Observer ha proposto un’analisi di Qin Hui, professore della Tsinghua University, sulle difficoltà incontrate da Ankara nella lunga marcia verso l’Unione Europea. Secondo l’esperto la forte impronta islamica costituisce il principale freno ad un processo di piena integrazione nel blocco europeo, che dagli anni ’80 in poi ha visto una diversificazione della membership con l’ingresso della Grecia ortodossa, ma che ancora non include nessuno Stato musulmano. Questo nonostante «la Turchia vanti un livello di sviluppo superiore a quello di altre Nazioni dell’Europa orientale e dell’Ue, come la Bulgaria, e una condizione finanziaria di gran lunga migliore rispetto ad altri Paesi dell’Europa meridionale».
Dal 2010, Cina e Turchia sono blindate da un partenariato strategico e scambi commerciali pari a 24 miliardi di dollari annui. Ma un anno fa esatto i rapporti tra i due Paesi si erano fatti tesi – in concomitanza con la festività del Ramadan – dopo i commenti solidali del governo turco a favore della minoranza uigura, di lingua turcofona e fede musulmana, che abita la regione autonoma cinese dello Xinjiang. La Turchia rappresenta un punto di arrivo per gli uiguri in fuga dalla Cina a causa delle tensioni etniche che scuotono periodicamente la regione. E talvolta le prese di posizione di Ankara sulla questione indispettiscono il regime cinese, come nel caso delle proteste turche innescate dal rimpatrio di 109 cittadini uiguri scappati in Thailandia e riconsegnati nelle mani di Pechino. All’epoca dei fatti Erdogan aveva solennemente assicurato che non avrebbe mai permesso «a nessuno di usare il territorio turco per fare qualsiasi cosa capace di recare danno agli interessi nazionali e alla sicurezza della Cina». Ma fonti diplomatiche continuano a sostenere la tesi di un coinvolgimento di Ankara nel rilascio di passaporti turchi agli uiguri riparati nel Sud-est asiatico.
Come spiegava puntualmente il Global Times, «per la Cina la Turchia è uno dei Paesi più forti del Medio Oriente, una porta d’accesso all’Europea meridionale nonché un collegamento cruciale per l’iniziativa ‘One Belt One Road‘. Gli interessi economici in comune sono il fattore più importante in grado di mantenere i legami tra i due Paesi sul giusto binario». In quest’ottica, la stabilità del governo di Ankara è di cruciale importanza per la buona riuscita del progetto Nuova Via della Seta. Meglio un «sultano atlantico» che un’altra primavera araba.
[Photo credit: Egypt Street]