Nel paese che per lunghi tratti della sua storia ha visto il dominio del mito dell’«unicità etnica», il governo di Shinzo Abe, non certo noto per le sue simpatie a sinistra, ha effettuato una svolta storica per quello che riguarda le politiche dell’accoglienza. Non si tratta, naturalmente, di un’improvvisa folgorazione ma piuttosto l’esito ovvio di quanto le tendenze della popolazione giapponese impongono.
L’ASPETTATIVA DI VITA in Giappone è di 84 anni, la più alta del mondo. Secondo l’Economist, «più della metà dei bambini nati oggi in Giappone può aspettarsi di vivere fino a 100 anni». Si tratta di dati impressionanti e che, come specifica il magazine, costituiscono di per sé una buona notizia.
Solo che per il Giappone questi numeri hanno anche un impietoso risvolto: come affermato dallo stesso premier Shinzo Abe, «la popolazione giapponese è in declino e invecchia a velocità senza precedenti». Uno dei problemi più evidenti che deriva da questi dati preliminari è la carenza di manodopera: attualmente in Giappone ci sono 1,6 posti vacanti per ogni candidato.
Analogamente i sistemi pensionistici, sanitari e di sicurezza sociale sono in grande difficoltà: il debito pubblico è pari al 250% del Pil e il governo ritiene che entro il 2040 i costi di assistenza sociale aumenteranno in modo vertiginoso e forse irrimediabile.
SECONDO LE PROIEZIONI dell’Istituto nazionale giapponese per la ricerca sulla popolazione e la sicurezza sociale, i giapponesi oggi sono circa 127 milioni; un dato che potrebbe scendere al di sotto dei 100 milioni entro il 2049 e raggiungere gli 82 milioni entro il 2065.
PRIMA DI COMINCIARE a regolarizzare lavoratori stranieri, il governo ha tentato un’altra strada: arruolare le donne e gli anziani o aumentare l’automazione per ovviare alle spese per i più vecchi. Nel 1992 – come riporta Quartz – il governo giapponese «aveva approvato una legge che formalizzava il congedo parentale parzialmente retribuito fino a un anno dopo il parto. Il governo ora richiede alle aziende di oltre 300 dipendenti di pubblicare obiettivi per l’assunzione o la promozione di donne, parte di un tentativo di incoraggiare le donne a tornare al lavoro dopo aver avuto figli».
Nel 2017, il governo ha annunciato che avrebbe investito 18,47 miliardi in un pacchetto di sussidi per l’assistenza agli anziani e per l’assistenza all’infanzia e all’istruzione. Ci sono stati anche casi «virtuosi»: la città di Nagicho è riuscita ad aumentare il suo tasso di fertilità da 1,4 a circa 1,9 nel 2017 offrendo alle nuove mamme un «regalo» 2.785 dollari, compresi sussidi per la cura dei bambini, l’alloggio, la salute e formazione scolastica». Oggi in Giappone lavorano due milioni di donne in più rispetto a cinque anni fa (in impieghi part time e spesso con basso salario), così come è impiegato in attività lavorative il 23% delle persone con più di 65 anni.
Non solo, perché il governo ha perfino aumentato l’importo che i ricchi giapponesi over 70 devono pagare per le cure mediche. «L’esperienza di questi pensionati – riporta il sito Equaltimes.com – unita alla carenza di manodopera li rende una risorsa indispensabile e rappresentano già il 13% della forza lavoro. Ce ne sono 8,62 milioni, di cui 3,5 milioni sono donne, un rapporto che è aumentato da 15 anni secondo il ministero degli affari interni».
DI FRONTE A UN BASSO TASSO di natalità e all’invecchiamento della popolazione, l’Organizzazione giapponese per l’occupazione degli anziani, elogiata sia dal governo che dalle imprese, «incoraggia tutte le persone che hanno il desiderio e la capacità di lavorare, compresi gli anziani e le persone con disabilità a esercitare le proprie capacità per tutta la vita al fine di mantenere la vitalità della nostra economia e società».
ANCHE I ROBOT costituiscono un tentativo di ovviare alle problematiche da affrontare. Per alcuni ricercatori interpellati dai media nazionali, l’uso dei robot sarà utile soprattutto nell’assistenza agli anziani, compensando così le attività statali per il mantenimento della popolazione più vecchia.
Si tratta di un problema sentito allo stesso modo in Cina, ad esempio, dove non a caso perfino la fantascienza prospetta un mondo di anziani gestiti interamente da forme di intelligenza artificiale. Telenoid, un piccolo robot made in Japan che aiuta le persone anziane è già in uso in Giappone: è una creazione di Hiroshi Ishiguro, che gestisce un laboratorio di robotica presso l’Università di Osaka: «I robot – ha raccontato a Equaltimes – sono un ponte comunicativo tra le persone e i loro assistenti. Gli anziani sentono la pressione quando parlano con altre persone, ma non è così quando interagiscono con i robot».
Tutto questo, però, non è bastato o non basta. Dalle considerazioni demografiche e dai risultati parziali dei rimedi «interni», è nata un’esigenza che ha portato a non pochi cambiamenti nell’approccio dei giapponesi verso gli stranieri: ad aprile del 2019, come riportato dalla stampa locale, «è entrata in vigore una modifica della legge sul controllo dell’immigrazione per introdurre un nuovo programma di visti».
SECONDO LA LEGISLAZIONE i visti sono rilasciati a non giapponesi in cerca di lavoro in 14 settori che soffrono di carenza di manodopera. Il governo ha creato una nuova categoria di visti, disponibile solo per gli stranieri che superano un test di competenze avanzate. In questo modo agli immigrati è anche consentito di cambiare lavoro, portare le famiglie in Giappone e «infine diventare residenti permanenti»: le ultime tre possibilità fino al varo della nuova legge non erano consentite. E i risultati non sono mancati: secondo i dati del ministero della giustizia giapponese, oggi in Giappone vivono 2.7 milioni di stranieri (due volte il numero di soli cinque anni fa), di cui 1,5 milioni sono lavoratori.
SI TRATTA DI UNA NOVITÀ rilevante, che si accompagna ancora a numerosi problemi, compreso il costo elevato dei nuovi assunti e alla tendenza degli imprenditori giapponesi ad assumere solo connazionali e più di tutto con il mito dell’«unicità etnica» nipponica non ancora completamente scomparso nelle pieghe della società giapponese.
Il riconoscimento degli Ainu, mentre arrivano cinesi, sudcoreani e vietnamiti
Durante l’ultimo campionato del mondo di rugby in Giappone, Shinzo Abe è stato ripreso mentre partecipava a una «ola» del pubblico. Ogni media, tanto nazionale, quanto internazionale, ha sottolineato il trasporto del primo ministro, tanto più per una squadra composta da giocatori provenienti in realtà da svariate parti del mondo, alcuni dei quali sono «giapponesi» proprio grazie alla progressiva politica di apertura nei confronti degli immigrati.
Naturalmente il team di rugby costituisce un mondo a parte, rispetto ai tanti lavoratori stranieri che, però, vivono nella stessa situazione «giuridica». Di questi oltre 2 milioni, per nazionalità, i cinesi costituivano il gruppo più numeroso con 786.241, seguiti dai sudcoreani (451.543) e dai vietnamiti (371.755).
«Se perdiamo 6,4 milioni di operai entro il 2030, l’unica scelta per i datori di lavoro è quella di assumere stranieri, anche se devono pagare loro un salario elevato», ha affermato al Japan Times l’imprenditrice Misa Matsuzaki. «Altrimenti, dovremo accettare la scomparsa di molte piccole aziende». Il numero di studenti stranieri che hanno cambiato il loro status di visto per lavorare in Giappone dopo essersi laureati in università o scuole professionali ha raggiunto un livello record nel 2018, hanno detto mercoledì le autorità di immigrazione, a causa della carenza cronica di manodopera nella nazione.
Ma non si «muovono» solo i lavoratori: «un totale di 25.942 studenti hanno cambiato il loro status di residenza l’anno scorso in uno nuovo che consente di poter cercare occupazione in Giappone»; si tratta di un aumento di 3.523 rispetto all’anno precedente, secondo l’Immigration Services Agency.
La cifra è più che raddoppiata rispetto al 2013, apparentemente perché riflette «la crescita complessiva del numero di studenti stranieri e l’aumento della domanda da parte delle aziende di lavoratori stranieri». Qualcosa si è mosso anche in relazione alle minoranze etniche presenti in Giappone e quasi prese in considerazione. Nel febbraio del 2019 è stata approvato per la prima volta una legge per riconoscere la minoranza etnica Ainu come «popolo indigeno», dopo oltre un secolo di assimilazione forzata e discriminazioni che hanno quasi cancellato la cultura tribale.
Oltre a vietare il razzismo nei confronti degli Ainu, la norma prevede anche nuove sovvenzioni per promuovere il turismo nell’isola di Hokkaido, loro terra d’origine. Inoltre, lo Stato permetterà ai 12.300 tribali rimasti di abbattere gli alberi nelle foreste di proprietà nazionale, per l’uso nei rituali tradizionali.
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.