Il Giappone di Kishida: dall’omicidio di Shinzo Abe alle difficoltà economiche, dalla guerra in Ucraina alla nuova strategia di difesa: cronaca di 365 giorni costellati di difficoltà per Tokyo
Il 2022 doveva essere l’anno di Fumio Kishida e del suo Giappone, ma si è invece rivelato un “annus horribilis” per entrambi. Il suo mandato inizia sotto il buon auspicio dei sondaggi e con una agenda politica fitta, ma ben presto i problemi di politica internazionale, in primis la guerra russa all’Ucraina e le sue ricadute economiche, aggravano la già difficile stabilità politica del governo. In aggiunta a tutto ciò, la scioccante morte dell’amico/rivale Shinzo Abe l’8 luglio di quest’anno si trasforma: da un momento di unità nazionale diventa un boomerang politico che sta dando ancora adesso non pochi grattacapi al governo in carica.
La morte di Abe avviene per mano di Tetsuya Yamagami durante un comizio nella città di Nara. L’attentatore dichiarerà che il motivo del suo gesto era dettato dall’odio verso Abe e la sua fazione politica per via degli stretti legami di questo con la chiesa dell’Unificazione, una setta religiosa sudcoreana, che a partire dagli anni settanta ha saputo costruirsi una fitta rete di legami più o meno leciti con la politica Giapponese e Americana in nome dell’anti-comunismo.
Così l’omicidio di Abe ha, da una parte, portato a galla l’influenza della Chiesa sui membri del Partito liberal-democratico (pare infatti che quasi la metà dei parlamentari dell’LDP abbia avuto contatti più o meno stretti con la Chiesa negli ultimi anni); dall’altra ha riacceso il dibattito pubblico sull’eredità e sulle politiche conservatrici dei governi Abe. L’attenzione è stata tale che nei giorni dei funerali di stato dello stesso Abe, fortemente voluti dal premier Kishida, Tokyo ha visto molti giovani occupare le piazze in segno di protesta contro l’eredità politica dello statista e soprattutto contro Kishida che di quell’eredità avrebbe voluto farsi carico davanti agli occhi del mondo.
Da quel momento Kishida nei sondaggi non si è più ripreso, scivolando sotto la soglia critica del 30% dei gradimenti. Nel farttempo la tempesta di scandali attorno a lui non si è mai arrestata. Il suo governo ha, infatti, visto finora le dimissioni di 3 ministri nell’arco di un mese: il ministro degli interni, Minoru Terada; il ministro dell’economia Daishiro Yamagiwa (proprio in virtù dei suoi legami con la Chiesa dell’unificazione); il ministro della giustizia, Yasuhiro Hanashi; mentre un quarto, il ministro della ricostruzione Kenya Akiba, è anch’egli nell’occhio del ciclone per i suoi legami con la Chiesa dell’unificazione.
Nel frattempo l’agenda economica del nuovo premier fatica a decollare. Kishida si era presentato ai giapponesi parlando di “un nuovo modello di capitalismo”, fatto di ridistribuzione per rafforzare la classe media e di sostegno ai consumi. Da decenni infatti il Giappone soffre di un mercato interno in forte deflazione e bassi tassi di crescita degli stipendi. Un trend in discesa per la terza economia del mondo a cui non era riuscito a porre rimedio neanche Shinzo Abe con la sua famosa agenda economica, l’Abenomics. Tuttavia anche il “New capitalism” di Kishida sembra destinato a fallire. In un momento in cui l’economia globale va incontro ad alti tassi di inflazione, alla quale le banche di tutto il mondo rispondono alzando i tassi di interesse per raffreddare l’economia, non è stato possibile per il governo Giapponese trovare lo spazio per proseguire una politica economica espansiva. Anzi, al fine di evitare il continuo deprezzamento dello Yen anche la Bank of Japan ha annunciato martedì 20 dicembre che alzerà i tassi d’interesse e diminuirà l’acquisto di titoli di stato. Anche il Giappone deve dunque dire addio alle politiche monetarie espansive che porta avanti da anni, nel vano tentativo di rilanciare i consumi nel paese; non per combattere l’inflazione che in Giappone ha toccato a malapena il 3,6% questo ottobre, ma per proteggere le proprie esportazioni e non perdere gli investimenti esteri, rafforzando la propria valuta nazionale.
Il 16 dicembre è arrivata un’altra svolta storica per il Giappone che segna però un successo per il governo Kishida che è riuscito ad approvare 3 documenti il National Security Strategy (NSS), il National Defense Strategy (NDS) e il National Buildup Program (NBP), intestandosi così l’inizio di una nuova fase per la politica estera giapponese. La firma di questi documenti è importante perché segna un deciso cambio di passo nella politica estera e militare del Sol levante ed è un traguardo che si innesta proprio in quell’eredità di normalizzazione delle forze militari del paese tanto cercata da Shinzo Abe durante il suo governo. Le nuove linee guida aumentano del 56% il budget militare per le forze armate di difesa (aka l’esercito giapponese) nei prossimi 5 anni, raggiungendo così il 2% del Pil.
Nelle nuove linee guida inoltre viene nominata la Cina come “la più grande sfida strategica” del paese, mentre nel 2013 l’ultimo aggiornamento la indicava come un partner strategico del paese accanto alla Russia. La guerra in Ucraina, la crescente assertività della Cina nelle acque territoriali giapponesi – non ultime le minacciose esercitazioni militari cinesi intorno a Taiwan questo agosto – e i sempre più spericolati test missilistici della Corea del Nord hanno creato il clima che ha reso possibile a Kishida questa svolta militarista al paese e che non era stata possibile ai suoi predecessori, in primis Shinzo Abe, sia per le pressioni dell’opinione pubblica interna, da sempre contraria al riarmo, sia per il timore che un Giappone riarmato incute ancora nei paesi asiatici a distanza di decenni dalla fine dell’imperialismo nipponico.
Di Francesco Gianotti