Quest’anno, nei mesi che hanno preceduto il Natale, una ventina di persone in uniformi britanniche hanno animato le strade di Hong Kong riportando in vita uno dei capitoli più dolorosi della storia dell’ex colonia: la battaglia che nel dicembre 1941 vide le truppe inglesi venire vergognosamente sconfitte dai giapponesi in uno dei primi conflitti asiatici della seconda guerra mondiale. L’episodio, noto eloquentemente come Black Christmas, diede il via a tre anni e otto mesi di occupazione nipponica. Mentre l’esito umiliante viene puntigliosamente ricordato nei libri di storia, la valorosa resistenza della popolazione locale è finita lentamente nell’oblio. Allo scoccare del 75esimo anniversario, i volontari dell’organizzazione Watershed hanno così deciso di rispolverare il passato per rievocare quel senso di appartenenza che manca ai giovani hongkonghese. “Il nostro obiettivo è utilizzare la storia per mostrare che un tempo a Hong Kong la gente si batteva ancora per la Patria”, ha spiegato al Guardian il ventiquattrenne Taurus Yip, tra i promotori dell’iniziativa.
Sempre più spesso la storia funge da casus belli tra la mainland, promotrice di valori patriottici condivisi, e la gioventù locale, in cerca di una propria identità autoctona. Da quando, nel 2014, il ripensamento della madrepatria sulla concessioni di elezioni a suffragio universale ha innescato due mesi di disobbedienza civile e paralisi del centro finanziario per opera dei manifestanti pro-democrazia, nuove forze politiche gestite da giovani poco più che ventenni hanno cominciato ad agitare i sonno di Pechino. I termini “localismo” e “autodeterminazione”, rimasti sotto traccia fin dall’handover di Hong Kong alla Cina, condiscono ormai sempre più spesso il dibattito politico in risposta alla crescente ingerenza cinese negli affari locali.
L’ex colonia britannica è tornata alla Repubblica popolare nel 1997 sotto il motto “un paese due sistemi” e, come regione amministrativa speciale, gode ufficialmente di una certa autonomia economica, culturale e giudiziaria, in virtù di una minicostituzione locale di ispirazione anglosassone: la Basic Law. Una situazione che, stando a quanto stipulato nella dichiarazione congiunta sino-britannica dell’84, dovrebbe rimanere invariata per 50 anni. Ma la lunga mano di Zhongnanhai, il Cremlino cinese, agisce sempre più indiscriminatamente e alla luce del sole. L’erosione della libertà di stampa e degli organi giudiziari registrata nell’ultimo anno (e culminata nel caso dei cinque librai “rapiti”) ha portato Amnesty International a declassare la condizione dei diritti umani nell’ex colonia inglese ai minimi dall’handover.
Si tratta di un’escalation cominciata un paio di anni fa, quando nell’estate del 2014 l’Assemblea Nazionale del Popolo (il parlamento cinese) ha ritirato la promessa, fatta sette anni prima, di concedere che le elezioni per l’esecutivo hongkonghese — in agenda per il prossimo 26 marzo — avvenissero con il sistema “un uomo un voto”, anziché per mezzo di un Comitato elettivo filo-Pechino, come accaduto finora. Al voltafaccia sono seguite le proteste degli Ombrelli, il movimento democratico ispirato da Scholarism e l’Hong Kong Federation of Students, gruppi studenteschi già noti alle cronache per aver osteggiato nel 2012 l’ingerenza della mainland nelle politiche educative locali attraverso la promozione di curricula patriottici.
Scholarism ha cessato di esistere lo scorso marzo con la nascita di Demosisto, partito politico fondato dai leader degli Ombrelli Joshua Wong (20 anni) e Nathan Law (23), che pone tra i propri obiettivi l’indizione di un referendum popolare sullo status del Porto Profumato allo scadere dei famigerati 50 anni. Sì, perché sebbene le strade di Hong Kong siano tornate complessivamente alla quiete, il movimento di disobbedienza civile ha trovato una sua legittimazione lo scorso settembre con una schiacciante vittoria elettorale delle nuove e giovani forze politiche. Con un’affluenza record del 58 per cento, le ultime legislative hanno visto circa il 20 per ceto dei 2,3 milioni di votanti appoggiare l’ingresso in parlamento di candidati favorevoli all’autodeterminazione o persino all’indipendenza. E sebbene gli sforzi messi in campo da Pechino per reprimere le spinte secessioniste abbiano già condotto alla squalifica di due neodeputati democraticamente eletti (altri quattro sono ancora a rischio), difficilmente tali minacce basteranno ad azzittire le pretese autonomiste dell’ex colonia inglese.
Secondo un sondaggio condotto dalla Chinese University of Hong Kong, il 40 per cento della popolazione locale compresa tra i 15 e i 24 anni si dice favorevole a un divorzio dal continente. Una posizione che rischia di farsi strada nei palazzi del potere di pari passo con l’abbassamento dell’età anagrafica dei nuovi attori politici. Diciassette legislatori hanno ormai meno di 40 anni, contro i sette della passata legislatura. Mentre dei 70 seggi di cui è composto il LegCo (Legislative Council of Hong Kong), 40 sono finiti alle forze pro-establishment e 29 sono andati all’opposizione, di cui 8 di orientamento localista, dicitura che al suo interno abbraccia moderate espressioni autonomiste “in salsa cantonese”, fino alla militanza violenta, sfociata recentemente in aggressioni contro i turisti cinesi.
Premiati da 400mila preferenze, i paladini dell’autodeterminazione hanno conquistato il cuore delle classi più disagiate, ma soprattutto dei Millenial, molti dei quali al primo voto. Le loro posizioni divergono dalle istanze più soft dei pandemocratici, la vecchia guardia nata dai movimenti giovanili degli anni ’70. La spaccatura che sta percorrendo il fronte democratico si è fatta più marcata lo scorso giugno, quando il gruppo localista Youngspiration e alcune organizzazioni studentesche hanno deciso di non prendere parte all’annuale veglia in ricordo delle proteste di piazza Tian’anmen, una triste pagina della storia cinese in cui Porto Profumato si è ritrovato coinvolto, divenendo riparo per i manifestanti in fuga dalla repressione comunista. “Non ci interessa batterci per la democrazia in Cina”, spiegò al tempo l’Hong Kong Federation of Students.
Con l’approssimarsi del 2047 (e la scadenza della concordata autonomia), è piuttosto il futuro della regione amministrativa speciale a stare a cuore alle nuove generazioni. Quelle che come Joshua Wong sono cresciute in una Hong Kong già “cinese”, affetta da un’inguaribile crisi abitativa e prospettive di lavoro in peggioramento. Tutti elementi di contorno che hanno concorso a fomentare la mobilitazione degli Ombrelli.
L’insofferenza verso il soffocante abbraccio della mainland si inserisce, così, sullo sfondo di un più ampio conflitto generazionale. Da una parte ci sono i nuovi attivisti, nati dal ventre delle proteste del 2014, dall’altra c’è il cosiddetto establishment “old seafood”, composto dai vecchi interessi costituiti, restii a rinunciare ai loro privilegi: si tratta di politicanti, dirigenti d’azienda e lobbisti abituati a mediare tra la terraferma e la regione amministrativa speciale, tra il “socialismo con caratteristiche cinesi” e il capitalismo deregolato. E’ proprio la “generazione “old seafood” (dal cantonese “lo see fut” traducibile come “vecchio stronzo”) che finora ha raccolto a piene mani i frutti del modello “un paese due sistemi”, lasciando agli ultimi arrivati le briciole.
Quando nel 1842 il trattato di Nanchino stabilì la cessione di Hong Kong all’Inghilterra, la Cina era un paese in declino, assediato dalle potenze occidentali eppure ancora altezzosamente restio ad aprirsi commercialmente con l’esterno. Il Porto Profumato ha saputo capitalizzare la sua collocazione geografica, fungendo da ponte tra l’ex Impero Celeste e la comunità internazionale. Nei periodi di crisi (guerra civile e Rivoluzione culturale in primis) Hong Kong si è candidata a riparo per la popolazione in fuga, attraendo talenti, investimenti e quel bagaglio culturale che Mao Zedong demolì pezzo per pezzo, ritenendolo “feudale”. Le fortune dell’ex colonia britannica continuarono a prosperare negli anni ’80, quando la Repubblica popolare avviò il “gaige kaifang” (la politica di riforma e apertura), e le manifatture hongkonghesi poterono delocalizzare le attività produttiva oltre la Muraglia, con conseguente riduzione dei costi. E’ in questi anni che la “old seafood generation” si è insinuata come mediatrice nelle trattative tra Pechino e Londra sul futuro dell’isola, portando alla firma della Sino-British Joint Declaration (1984) e alla stesura della Basic Law.
Ma, come spiega Vivienne Chow su Quartz, con la progressiva ascesa cinese sullo scacchiere globale, la regione amministrativa speciale ha perso buona parte della sua esclusività e dei propri privilegi. I nati dopo il 1997 non hanno mai assaporato a pieno le sperimentazioni capitalistiche tra i “due sistemi”, vedendo piuttosto aumentare la propria dipendenza economica dalla traiettoria discendente della crescita cinese. Non si sentono più parte di due realtà, ma semplicemente cittadini di Hong Kong. Per i giovanissimi la madrepatria è uno scomodo vicino, che attenta all’autonomia dell’isola e nei weekend saccheggia le aree commerciali alla ricerca di acquisti esclusivi e servizi migliori. Da qui l’esigenza di creare un’identità culturale capace di esprimere un bagaglio di valori nativo e aggiornato ai nuovi tempi. Un obiettivo che transita per la riappropriazione del proprio passato e prevede un no secco alla politicizzazione della storia, spesso ripulita di tutti quegli episodi ritenuti imbarazzanti per la mainland.
A dicembre l’annunciato progetto per una sede locale del Palace Museum (ospitato nella Città Proibita di Pechino) è stata accolta dalle proteste di una quarantina di attivisti che, marciando in prossimità del sito prescelto, hanno sfoggiato bandane e altri accessori ispirati ai fatti di piazza Tian’anmen, mentre quest’estate la temporanea chiusura di uno spazio espositivo dedicato al massacro dell’89 ha riportato l’attenzione sull’interferenza cinese nella regione amministrativa speciale. Nel frattempo, una campagna di crowdfunding, lanciata lo scorso mese da Joshua Wong e alcuni giovani accademici, punta ad accumulare una cifra pari a 64mila dollari con l’obiettivo di spulciare gli archivi storici della regione amministrativa speciale e restituire ai cittadini il diritto di determinare il proprio destino; destino di cui sono stati privati quando Hong Kong è stata rimossa dalla lista dell’Onu dei territori non autonomi, su richiesta della Cina. Era il 1972 e da allora i cittadini di Hong Kong sono stati estromessi dalle negoziazioni per l’handover, lasciando il loro futuro in balia degli accordi sino-britannici, ha spiegato al Financial Times il leader di Demosisto: “non penso che la storia di Hong Kong sia stata scritta correttamente”.
Difficilmente la “rivoluzione culturale” avviata dalle nuove correnti giovanili andrà a segno senza una base d’appoggio più ampia; considerato il basso tasso di natalità, si stima che nel 2041 circa la metà della popolazione hongkonghese avrà più di 65 anni. Ma i numeri usciti recentemente dalle urne suggeriscono un progressivo allineamento delle simpatie politiche di figli e genitori. E i candidati alla guida del Porto Profumato lo sanno bene. Anticipando il proprio programma per le elezioni di fine marzo, la numero due di Hong Kong Carrie Lam — favorita da Pechino e già mediatrice tra il governo e gli Ombrelli — ha rimarcato la necessità di “investire nei giovani”, ventilando un pacchetto da 5 miliardi di HKD per l’istruzione, “detrazioni super” per gli investimenti in innovazione, tecnologia, ricerca e sviluppo, cui si aggiungerebbe l’istituzione di una task force preposta alla gestione delle risorse territoriali per raffreddare il settore immobiliare. Ciliegina sulla torta: l’assunzione di 20–30 giovani volti nel Central Policy Unit, che dal 1989 supporta il Chief Executive (il leader locale) nella formulazione e implementazione delle politiche locali. Ancora prima del 2047, è alla prossima tornata elettorale che i Millenial guardano per decifrare il proprio futuro.
[Pubblicato su il Tascabile il 24 marzo 2017]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.