Cancellati undici anni di faticose conquiste verso la democrazia. Articolo realizzato in collaborazione con Gariwo – La foresta dei giusti e pubblicato originariamente su Gariwo.net
Quasi 1500 manifestanti uccisi. Undicimila cittadini arrestati, di cui ottomila tuttora in carcere. Poco più di 400 mila profughi, dei quali più di centomila bambini. Aung San Suu Kyi già condannata due volte in processi a dir poco discutibili, con l’ex consigliere di Stato che rischia in tutto più di cento anni di carcere. È trascorso un anno dal golpe militare in Myanmar. Era la mattina del 1° febbraio 2021 quando Aung San Suu Kyi, il presidente Win Myint e diversi altri leader della Lega Nazionale per la Democrazia (il partito che aveva vinto nettamente le elezioni del novembre 2020) furono arrestati. Da allora il Myanmar è in mano alle forze armate, che dopo la dichiarazione dello stato di emergenza hanno annunciato il passaggio del potere politico al loro capo, il generale Min Aung Hlaing. A un anno di distanza, non si intravede ancora una soluzione condivisa per una crisi che continua a causare gravi conseguenze sulla vita del Myanmar e soprattutto su quella dei suoi cittadini. Un dramma politico che è diventato anche economico e sociale, con qualsiasi azione di dissenso o semplicemente di mancata adesione alla linea della giunta passibile di essere punita con la violenza.
Un anno tremendo per la Birmania, 365 giorni durante i quali sono stati cancellati undici anni di faticose conquiste rese possibili da una transizione verso la democrazia che aveva finalmente gettato una luce sul futuro di un paese martoriato e storicamente frammentato per motivi etnici, religiosi e ovviamente politici. Gli scontri si stanno facendo sempre più violenti e iniziano ad assomigliare a una guerra civile che vede impegnati diversi gruppi di milizie etniche armate. Tra imboscate e scontri a fuoco, si susseguono le notizie di azioni punitive da parte del Tatmadaw, come viene chiamato l’esercito birmano, che è stato accusato più volte di aver incendiato o raso al suolo interi villaggi o comunque quartieri abitati (anche solo in parte) da manifestanti, massacrando i civili. Una repressione feroce, con le promesse di elezioni e di ritorno alla transizione democratica per ora del tutto disattese. Le Nazioni Unite sostengono che la giunta militare si stia macchiando di crimini contro l’umanità, che stanno tra l’altro causando un esodo di massa. Secondo le Nazioni Unite ci sono stati almeno 405 mila profughi dal golpe, oltre uno su quattro minorenni. Secondo Save the Children, per altro, “i minori in transito sono maggiormente a rischio di tratta, abusi, reclutamento in gruppi armati, di essere feriti e uccisi”. Alla vigilia di Natale un raid militare ha lasciato i resti carbonizzati di più di 30 persone nello stato di Kayah, compresi due membri dello staff dell’associazione benefica Save the Children.
La repressione prosegue nelle città e nelle province più remote ma anche nelle aule dei tribunali. Suu Kyi è stata da poco condannata a quattro anni di reclusione con l’accusa di aver importato illegalmente delle ricetrasmittenti e di aver violato le restrizioni anti Covid durante la campagna elettorale del 2020. Phyo Zeyar, compagno di partito di Suu Kyi, è stato condannato a morte insieme all’attivista Kyaw Min Yu, entrambi con l’accusa di sedizione. La giunta nega di voler sciogliere la Lega nazionale per la democrazia prima delle elezioni che prevede di “concedere” nell’estate del 2023, ma di fatto il partito non ha più spazio d’espressione. Anche lo spazio digitale è nel mirino dell’azione repressiva. La giunta ha approntato una nuova legge sulla cybersicurezza volta a perseguire chi accede ai siti bloccati aggirando il blocco utilizzando una vpn (rete virtuale privata).
La tragedia è anche economica. Lo scorso decennio, l’economia era cresciuta annualmente a una media del 6,6% a una rapidità che aveva consentito l’emersione della classe media. L’apertura al turismo aveva messo il Myanmar sulle mappe globali, con la speranza che potesse diventare una storia di successo. Le ombre, per la verità, erano tornate ad addensarsi sul paese del Sud-Est asiatico già da qualche anno. Soprattutto per la repressione della minoranza Rohingya, che la stessa Suu Kyi non era riuscita a fermare. Anzi, nel 2017 i villaggi dell’etnia di origine musulmana sono stati presi d’assalto, con circa 700 mila persone che hanno cercato rifugio in Bangladesh. Eppure, i passi avanti nel dialogo con i vari gruppi etnici erano stati notevoli.
In un solo anno, i generali hanno distrutto tutte le conquiste dell’ultimo decennio. Il numero dei cittadini che vivono sotto la soglia della povertà è raddoppiato e rischia addirittura di triplicare entro la fine del 2022 per quanto riguarda la popolazione urbana. La moneta locale, il kyat, ha perso più del 60% del suo valore rispetto al dollaro Usa. La Banca Mondiale stima una crescita solo dell’1% nel 2022, il tutto dopo un vero e proprio crollo del 18% nel 2021. E mentre crollano occupazione e stipendi, l’inflazione potrebbe correre al 9% con i prezzi che aumentano e la carenza di benzina che ha già portato alla chiusura di molte stazioni, mentre i blackout elettrici si moltiplicano. C’è un dramma anche culturale, visto che la maggior parte delle scuole resta di fatto chiuso.
Il dossier birmano sembra però essere scivolato parecchio indietro nella lista delle priorità. Il mondo si è prima preoccupato dell’Afghanistan, ora dell’Ucraina. Il Myanmar resta sullo sfondo. Nonostante il colpo di stato e le violenze diverse multinazionali restano a operare nel paese. Non solo. Il flusso di armi e finanziamenti alle forze armate birmane non si è mai del tutto interrotto. Come denuncia il gruppo Justice for Myanmar, sono ancora tante le aziende che vendono armi e sistemi di sorveglianza alla giunta militare. “I 55 milioni di abitanti del Myanmar non possono sopportare un ulteriore anno di silenzio e di mancanza di azione da parte di molti governi del mondo”, ha dichiarato in una nota Amnesty International. Ming Yu Hah, vicedirettore delle campagne sull’Asia dell’organizzazione, ha denunciato che con l’approssimarsi dell’anniversario del colpo di stato, i militari di Myanmar hanno ripreso gli attacchi aerei indiscriminati nel sud-est del paese, bloccato l’afflusso di aiuti umanitari indispensabili a salvare vite umane e lanciato una sanguinosa campagna repressiva contro attivisti e giornalisti”.
Mentre il mondo è impegnato su altri fronti, spetterebbe all’ASEAN (l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico) cercare di capire se e come intervenire sulla questione Myanmar. Sul finire del 2021, durante la presidenza di turno del Brunei, il Tatmadaw era stato escluso dagli incontri ufficiali dell’Associazione. Con l’avvio della Presidenza di turno della Cambogia, però, sono emerse alcune prospettive divergenti sul posizionamento da mantenere nei confronti di Naypyidaw. A creare polemiche è stata soprattutto la visita in Myanmar del primo ministro cambogiano Hun Sen, svolta a inizio gennaio. Indonesia, Singapore e Malesia hanno reagito in modo negativo alla mossa del leader politico di Phnom Penh. Il primo ministro malese Ismail Sabri Yaakob ha dichiarato che Kuala Lumpur non appoggerà alcun tentativo di invitare rappresentanti politici della giunta birmana agli incontri dell’ASEAN. Il premier di Singapore, Lee Hsien Loong, ha invece ricordato che al momento non ci sono stati passi avanti sull’implementazione dei cinque punti del piano di pace proposto dal blocco mesi fa. Un programma irrinunciabile, secondo il presidente indonesiano Joko Widodo. Hun Sen ha replicato dicendo che la sua visita in Myanmar era mirata a “piantare alberi, non ad abbatterli”.
In queste settimane la giunta militare, se possibile, ha ulteriormente stretto la presa in previsione dell’anniversario del golpe. Le autorità hanno recentemente annunciato che non si potrà utilizzare nemmeno un modo di protestare pacifico che si era diffuso nei primi giorni e settimane in seguito al colpo di stato. Coloro che suonano il clacson o battono pentole e padelle potrebbero essere accusati di tradimento o di terrorismo.
Di Lorenzo Lamperti
[Pubblicato su Gariwo]Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.