<intro_china-files> Proponiamo di seguito un articolo sulla società civile cinese, scritto da Tyra Diez, a seguito del primo articolo scritto da Yu Keping (俞可平) sul medesimo argomento. Con questi due articoli la nostra intenzione è aprire un dibattito sull’argomento: chiunque sia interessato a sviluppare risposte ai due articoli proposti, cui ne seguiranno altri, può contattarci info_at_china-files.com e potremo inserire il contributo all’interno della discussione </intro_china-files>
Dalla fine degli anni ottanta, il discorso sulla società civile si è trasformato in un altro dei tanti scenari ed aspettative che circondano la complessa situazione sociopolitica della Cina contemporanea. Semplificando le cose: in ambito accademico euroamericano l’opinione generale sostiene che in Cina manchi ancora, propriamente parlando, una società civile. Dal canto loro gli intellettuali cinesi – così come una parte importante ed eterogenea della sua popolazione – si impegnano invece nel dimostrare con proprie parole e a smentire con le loro azioni, questa mancanza.
La questione riguarda cosa si intende con l’espressione “propriamente parlando”. Ovvero, nella dimensione teleologica e normativa che questo discorso porta con sé (come quello su “democrazia” o “cittadinanza”) viene a diventare parte di una mescolanza di desideri in lotta che è opportuno chiarire. Il presente articolo introduce brevemente le diverse trame che formano questo groviglio.
Discorsi e contesti
Dire che la critica euroamericana considera la Cina ancora priva di una società civile, significa affermare la mancanza del sistema politico e del carattere giuridico necessario per garantire e promuovere l’esistenza e l’azione congiunta di organizzazioni indipendenti dal governo.
Vero o meno, interessante è questo “ancora”, perché, di fatto, lasciando da parte i detrattori radicali – quelli che negano che il concetto si possa usare in uno Stato dittatoriale a partito unico – dalla fine degli anni ottanta intellettuali dell’uno e dell’altro lato hanno cercato di applicare il concetto alla realtà cinese, addentrandosi per quei sentieri storico-linguistici che permettono di trovare “embrioni” o esperienze simili a quelle che Habermas rastrellò nella tradizione europea per articolare il suo modello (universale) di società civile.
Questo processo di adozione è eloquente in sé stesso, dal momento che ha rivelato l’impossibilità di equiparare le varie esperienze sotto un modello unico, evidenziando a sua volta le diverse interpretazioni del concetto a seconda di quando e dove si usi. Di modo che, se alla fine degli anni ottanta, in pieno processo di “riforma” (della burocrazia statale) e “apertura” (del mercato), la formazione della società civile venne intesa dai circoli intellettuali e da alcuni settori del partito come un risveglio della “coscienza di cittadinanza” nelle politiche amministrative – inizialmente compatibile con la tutela governativa e l’integrazione dei gruppi di interesse che prolificarono durante quegli anni (piccoli imprenditori privati e formazioni intellettuali), all’inizio degli anni novanta, invece, il discorso prese un’altra forma.
Dopo il fallimento della “cittadinanza” e nel contesto più polarizzato che seguì il disastro di Tian’anmen, intellettuali in esilio e critici occidentali cominciarono a reclamare per la società civile l’interdipendenza e il confronto con il sistema di governo/Stato.
Quello che qui implicava il cambio di accento era, a volte velatamente e a volte apertamente, un attacco diretto a quello che in Cina restava del comunismo, dando luogo alla riluttanza e alla repressione delle autorità contro tutto ciò che suonasse come “società civile”.
Dalla metà degli anni novanta, dopo l’oscuramento o la normalizzazione forzata della tempesta, il discorso si è ricondotto e addolcito da entrambe le parti: mentre gli intellettuali tornano a parlare di “caratteristiche cinesi” della società civile, il partito si mostrò più tollerante con le formulazioni riguardo alla sua esistenza. Nella sua forma più ampia, questo discorso parla ora di indipendenza, più che del confronto o dell’indipendenza reciproca tra Stato e società, collocando il suo fine politico in quello spazio fragile dove entrambi si confrontano ridefinendo così i suoi limiti e poteri.
Ma la “terza via” che rappresenta questo “terzo spazio” che non è né del governo né della società ma del luogo dove (non) si incontrano e riconoscono, dove si negozia o si resiste, si confronta ancora con alcune etichette che, per mezzo di una rigida concezione di cosa sia la società civile, restringono la sua stessa realtà.
Teorie e pratiche
Dato che la teoria classica (eurocentrica) della società civile è oggetto di critiche e riformulazioni nel contesto delle democrazie liberali, non è strano che incontri alcuni ostacoli quando viene ad applicarsi in Cina. Va detto che il suo criterio di verità – ovvero la “istituzionalizzazione della indipendenza” dei gruppi che la formano, solitamente rappresentati come organizzazioni non governative – non si preoccupa solitamente delle differenze circa la sua storia o realtà proprie. La Cina conta ovviamente molte ONG, ma il loro status istituzionale o teorico non le lascia di fatto né più né meno effettive delle altre iniziative politiche e forme di resistenza che, istituzionalmente, non operano “fuori” dell’apparato del partito o dello Stato.
A volte sono proprio i funzionari, soprattutto a livello locale, a incitare alla ribellione contro certe politiche e abusi dello Stato o delle imprese locali, pubbliche o private. Talvolta lo sono parti dei sindacati, governativi come sono, che si oppongono a condizioni lavorative ingiuste.
A volte queste lotte hanno conseguenze positive anche a livello internazionale, come quando la ACFTU, unione sindacale del governo, obbligò la multinazionale Wal-Mart ad avere rappresentanza sindacale non solo nei suoi centri cinesi ma in tutto il mondo.
Le resistenze sono a loro volta disparate, a volte sotto la forma moderna di ONG con capitale privato, a volte con l’ironia postmoderna dell’arte che si fa gioco delle censure e a volte sotto forma tradizionale di insurrezioni contadine tinte di maoismo; tuttavia una o l’altra formano parte dell’elemento che contraddistingue il discorso sulla società civile: il potenziale trasformatore dell’azione congiunta.
Oltre a questo, quando passa da descrizione a normativizzazione, il suo discorso smette di significare e comincia ad imporre. In Cina questa teoria limita le pratiche a negare, tra le altre cose, i conflitti che avvengono all’interno del sistema politico stesso, dove i poteri locali e centrali agiscono spesso come oppositori (di sé stessi).
E ad un piano più generico più che contribuire, finisce per limitare, in almeno due aspetti fondamentali. In primo luogo, la “apoliticità” intrinseca della stessa, centrata come è nell’amministrazione o gestione più che nella costruzione congiunta del senso di mondo pubblico, così come non è casuale che l’emergere del discorso della società civile, coincida con processi di “depoliticizzazione” dei movimenti sociali, di nuovo o vecchio stampo, tanto in Cina come in Europa.
In secondo luogo, l’impronta cittadina della teoria della società civile che marginalizza, per lo meno teoricamente, alternative concettuali e iniziative politiche che nascono in ambito rurale perché, sebbene “civile” vuole anche includere contadini e migranti, premiando con ragione e giustizia il diritto ad avere diritti. C’è poi da capire se tali diritti, impregnati di logiche individualiste e urbane, non collidano con l’altro diritto ad autodeterminare la forma o la pertinenza degli stessi.
La storia, la grandezza e il sistema politico della Cina complicano di molto il tutto, però come in qualsiasi altra parte il tutto è lo stesso più semplice: le cose vanno male e la gente, anche qui, si organizza e scende in strada perché vuole cambiarle, non ha bisogno di teorie o di governi che approvino la sua esistenza o che valutino se ciò si adegua ad un modello prestabilito.
Tuttavia, la collaborazione dei governi è a volte utile e teorizzare sempre necessario, per quello la creatività teorica e le varie iniziative locali, rurali e urbane, istituzionalizzate o meno, che attuano in Cina hanno senza dubbio molto da apportare ad un mondo dove forse il problema che più urge è precisamente la sostenibilità di un modello globale che dà priorità alla città e ai suoi cittadini.