Proponiamo qui per la prima volta un contenuto tratto da Rise, la rivista sul Sud-Est asiatico di T.wai (Torino World Affairs Institute)*. China Files proporrà un articolo tratto da ogni fascicolo. Qui l’ultima uscita, dedicata all’Australia
Isola dell’emisfero australe geograficamente distante dal resto del continente asiatico, al quale è collegata dalle rotte che si irradiano dalla penisola indonesiana, da Timor Est e dalla Papua Nuova Guinea e che attraversano le acque meridionali del Mar Mediterraneo australasiatico, l’Australia è uno dei pochi luoghi sul pianeta che potrebbe vivere in un perdurante stato di tranquillità, naturalmente portato a disinteressarsi alle faccende esterne e a riunire, invece, i propri sforzi al perseguimento della crescita e dello sviluppo interno. Eppure, nonostante il vantaggio comparato determinato dalle barriere naturali che, almeno teoricamente, rendono poco praticabile un eventuale attacco esterno, l’Australia ha sperimentato dal Secondo conflitto mondiale in avanti una condizione di profonda apprensione strategica, colmata in larga parte dall’adesione di Canberra al sistema di sicurezza difensivo regionale a guida statunitense.
La dipendenza politica e militare dagli Stati Uniti risulta tuttora, a distanza di quasi settant’anni, un elemento imprescindibile della strategia di politica estera australiana, finalizzato a garantire la sicurezza della nazione anglofona nella regione dell’Indo-Pacifico, area nevralgica del commercio mondiale delimitata dall’Oceano Indiano nord-orientale, a est, e al Pacifico sud-occidentale, a ovest. Il Foreign Policy White Paper pubblicato nel 2017, il documento che detta le linee guida della politica australiana verso l’esterno, rivela l’ambizione di Canberra di costruire nell’Indo-Pacifico un’ambiente stabile e prospero dove siano assicurate l’apertura dei mercati e la libera circolazione di merci, capitali e idee.
Il contributo e il supporto di Washington risultano determinanti per la realizzazione di questi obiettivi, anche se negli ultimi anni l’ombrello di sicurezza statunitense pare non essere più un fattore sufficiente in grado di tutelare gli interessi dell’Australia nella regione. In concomitanza con la graduale ascesa regionale della Cina, l’Australia ha coltivato con Pechino proficue relazioni commerciali che hanno legato a stretto filo le fortune del business australiano con l’inarrestabile crescita economica della Repubblica popolare cinese (RPC), Paese alla costante ricerca dei minerali ferrosi, del carbone e del gas naturale liquefatto australiani. Di conseguenza, la Cina è diventata nel giro di pochi decenni il principale partner commerciale dell’Australia, nonché il più importante mercato di esportazione di beni e servizi australiani, arrivando a contare per oltre un quarto del commercio internazionale del Paese “Down Under”. Nell’arco di questo percorso, la politica australiana si è rivelata capace di costruire solide relazioni commerciali con la principale potenza regionale asiatica, riuscendo a cogliere gli elementi positivi di una relazione bilaterale che faticherebbe a trovare un punto di incontro in ambito politico e strategico. D’altro canto, nondimeno, nel contesto attuale di profonda incertezza innescata dalla guerra commerciale sinostatunitense – solo temporaneamente sopita – e dal minacciato disimpegno dell’amministrazione di Donald Trump dagli obblighi internazionali sottoscritti in passato dagli Stati Uniti con i propri alleati, l’Australia si trova a dover fare i conti con un
problema di eccessiva dipendenza di duplice natura, che ha messo in luce tutte le sue vulnerabilità.
Il dilemma che oggi vieppiù si profila in maniera nitida davanti ai decisori politici australiani è il medesimo dalla fine della Guerra fredda: com’è possibile conciliare l’eredità storica e culturale, gli interessi politici e gli impegni difensivi dell’Australia, profondamente legati al cuore dell’anglosfera, con la prossimità geografica e le opportunità economiche derivanti dalla relazione commerciale con la Cina e il resto dei Paesi asiatici? Attualmente, non si è ancora giunti a una soluzione univoca: il dibattito che imperversa sia tra i responsabili della politica estera sia nel mondo accademico dell’Australia si distingue per la presenza di posizioni e interpretazioni differenti su quale debba essere la strada migliore da percorrere senza che il Paese sia costretto a rinunciare ai vantaggi derivanti dall’una o dall’altra parte.
Ma non si tratta solo di un riallineamento degli interessi australiani sulla scena globale. Il riaffiorare di questa antinomia politica e culturale ha anche riesumato la vecchia questione dell’identità australiana e, nello specifico, il suo rapporto con i principali snodi strategici della regione: il Pacifico meridionale e il Sud-Est asiatico. Se è vero che i rapporti con gli Stati Uniti e la Cina hanno spesso adombrato i numerosi passi in avanti compiuti con queste due aree di vitale interesse per la sicurezza e la stabilità dell’Australia, è proprio nel Sud-Est asiatico tormentato dalla decolonizzazione che si è disvelato con chiarezza l’interesse di Canberra nei confronti del mondo asiatico; inoltre, è proprio nel “Near North”, e in particolare con i cinque membri fondatori dell’Association of South-East Asian Nations (ASEAN), che l’Australia ha iniziato ad allacciare negli anni Settanta del secolo scorso legami economici duraturi, al di fuori delle tradizionali direttrici commerciali dell’anglosfera e del Giappone, fino a quel momento il principale alleato dell’Australia in Asia orientale.
Vicinanza, responsabilità e centralità
È possibile tracciare l’evoluzione delle relazioni tra l’Australia e l’ASEAN spostandoci lungo un asse temporale che dagli anni Settanta, coincidenti con i primi anni di esistenza dell’associazione di cooperazione del Sud-Est asiatico, procede fino agli anni Duemila, allorché Canberra ha formalmente
riconosciuto la centralità diplomatica dell’ASEAN nel contesto di dialogo multilaterale all’interno del quale, almeno in linea teorica, dovrebbe trovare spazio la discussione delle questioni più impellenti della regione indo-pacifica.
Già nel periodo immediatamente precedente alla conclusione degli accordi che avrebbero sancito l’adesione della Gran Bretagna alla Comunità Economica Europea, l’Australia cominciò a sondare opportunità commerciali alternative con il mondo asiatico. All’epoca, il governo laburista di Gough
Withlam (1972−75) si accodò alla decisione statunitense di stabilire relazioni diplomatiche con la Pechino e riconoscere la politica di “una sola Cina”. Parallelamente, nonostante si fosse arrivati a un accordo con coloro che furono accusati, fino a qualche anno prima, di contribuire a fomentare le rivolte anticoloniali e di approfittare della presenza di ragguardevoli comunità di cinesi d’oltremare per deporre i regimi filoccidentali del Sud-Est asiatico, Canberra pose le basi per l’avvio di una incipiente forma di cooperazione commerciale con i cinque membri fondatori dell’ASEAN. Nel 1974, l’Australia divenne il primo “dialogue partner” dell’Associazione, che stava muovendo i primi passi verso la realizzazione di un modello
istituzionale in grado di rispondere alle sfide poste dalla minaccia comunista e dai contraccolpi politici e sociali prodotti dal processo di decolonizzazione.
La seconda fase dei rapporti tra Canberra e l’ASEAN ha inizio alla metà degli anni Ottanta ed equivale, da una parte, a un’assunzione di responsabilità da parte dell’Australia nella risoluzione delle principali controversie regionali e, dall’altra, a un incremento della partecipazione australiana ai negoziati per la cooperazione intergovernativa in Asia. Sempre i laburisti, guidati allora da Bob Hawke (1983−91), profusero ogni sforzo diplomatico alla ricerca di una soluzione internazionale che ponesse la parola fine al conflitto in Cambogia. Il piano di pace presentato nel novembre 1989 dall’allora ministro degli Esteri, Gareth Evans, prevedeva il coinvolgimento delle Nazioni Unite nel processo di transizione politica del Paese indocinese. Esso fu accolto molto positivamente dagli Stati membri dell’ASEAN e costituì la base di partenza dei negoziati che culminarono, quasi due anni dopo, negli Accordi di Parigi. Questo periodo segna un punto di svolta della politica estera australiana, anche perché Canberra diventa sempre più consapevole che i suoi interessi economici e di sicurezza risiedono in Asia, e che non siano quindi da rintracciare al di fuori del continente. Diplomatici e sherpa australiani si distinsero per un inusuale attivismo durante le trattative di costituzione dell’Asia-Pacific Economic Cooperation (1989) e dell’ASEAN Regional Forum (1994), le prime importanti iniziative di dialogo multilaterale nel campo, rispettivamente, economico e della sicurezza regionale.
Malgrado questo attivismo trovi cinicamente una prima spiegazione con la volontà australiana di continuare a garantire all’alleato statunitense un ruolo di primo piano nella regione, esso rientrava in una precisa politica di coinvolgimento negli affari asiatici che aveva come suo principale esponente il successore di Hawke, Paul Keating (1991−96). Anche se una parte dell’opinione pubblica nazionale oppose qualche timida resistenza alla strategia inclusiva dell’allora primo ministro laburista, l’impegno australiano nei confronti del Sud-Est asiatico fu rinnovato in occasione dello scoppio della crisi finanziaria asiatica del 1997, allorché il governo Canberra fu uno dei principali contributori dei pacchetti di aiuti elargiti dal Fondo Monetario Internazionale ai Paesi duramente colpiti dal crollo dei tassi di cambio e del mercato azionario.
La terza e ultima fase della relazione bilaterale tra i due attori regionali si distingue per l’effettivo riconoscimento da parte australiana della “centralità” diplomatica dell’ASEAN e dei principi su cui si fonda. Nel 2005, l’Australia si aggiunse alla lista di Paesi che hanno sottoscritto il Trattato di Amicizia e di Cooperazione del Sud-Est asiatico (TAC) del 1976, mostrando così una piena adesione alla visione pacifica e cooperativa di cui l’Associazione si fa portatrice. L’impegno australiano nei confronti dell’ASEAN e la fiducia riposta nella sua capacità di promuovere stabilità e sviluppo in un contesto regionale dove interagiscono vieppiù piccole, medie e grandi potenze che detengono svariati interessi, sono concetti ribaditi in occasione del summit bilaterale organizzato nel marzo 2018 a Sydney dal governo guidato da Malcolm Turnbull (2015−18). La dichiarazione congiunta prodotta al termine dell’incontro, il primo in quarantaquattro anni di relazioni diplomatiche, afferma che l’Australia e l’ASEAN sono partner strategici con “interessi vitali” nella regione. Il testo fa il punto delle principali questioni sulle quali entrambi dovranno cooperare e, inoltre, getta uno sguardo sulle sfide future che richiedono un’intensa collaborazione (in particolare, il libero scambio e la cybersecurity). Indubbiamente, si pone sulla stessa lunghezza d’onda l’attuale primo ministro Scott Morrison, il quale in un discorso tenuto poco prima dell’inizio del vertice del G20 di Osaka, prospettava per il suo Paese un ruolo più solerte e dinamico, nonché un maggiore protagonismo nelle decisioni che interessano l’intera regione dell’Indo-Pacifico. Colpisce, tuttavia, la mancanza di qualsivoglia riferimento all’ASEAN come entità politica unitaria e, anzi, Morrison non esita a esaltarne primariamente il carattere economico, riponendo invece le future speranze australiane di una collaborazione di carattere strategico con l’Indonesia e il Viet Nam, Paesi che, assieme al Giappone e all’India, potrebbero mitigare gli effetti deleteri scaturiti dall’assertività diplomatica e militare cinese nel Sud-Est asiatico e dall’inasprimento della competizione tra gli Stati Uniti e la RPC5 .
Visioni e interessi convergenti
L’accelerazione impressa negli ultimi vent’anni alle relazioni tra l’Australia e l’ASEAN trova a Giacarta, sede del Segretariato dell’Associazione, una duplice spiegazione: il coinvolgimento di Canberra nei processi di cooperazione multilaterale fondati sulla cultura diplomatica altrimenti
conosciuta come “ASEAN Way” avrebbe dato ulteriore lustro alle istituzioni concepite per garantire stabilità e sviluppo all’intera regione; al contempo, l’accettazione delle norme e la condivisione di una precisa visione di Indo-Pacifico avrebbero consentito all’ASEAN di ottenere legittimazione e credibilità anche dal suo vicino meridionale. Da parte australiana, non vi sono dubbi circa la necessità di incrementare i rapporti in un contesto “dinamico” dal punto di vista sia economico sia strategico, così come è stato definito dall’ultima nota di aggiornamento al Defence White Paper del 2016 pubblicata il 1° di luglio. Il miglior modo per Canberra di raggiungere questo obiettivo è di continuare a coltivare le relazioni bilaterali con i Paesi del Sud-Est asiatico e, a livello regionale, di fornire il proprio contributo al processo di cooperazione in fieri nel “Near North”. Tuttavia, accade sovente di non riuscire a far coesistere entrambi questi propositi.
Il commercio rappresenta il settore della cooperazione bilaterale che ha conosciuto un incremento senza precedenti. Nel giro di un decennio gli investimenti australiani in Asia si sono più che triplicati, passando dai 120 miliardi di dollari australiani del 2019 ai 472 del 20197, e gran parte di questi sono convogliati verso l’hub finanziario di Singapore. Il SudEst asiatico è diventato la nuova terra di conquista del business “Down Under”, con migliaia di piccole e grandi aziende impegnate nei settori dei servizi professionali, del manifatturiero e dei servizi finanziari, principalmente in Thailandia, a Singapore e nel Viet Nam. Oltre dodicimila aziende australiane esportano greggio, carbone e gas naturale, mentre il Paese importa dalla regione dell’Asia sud-orientale principalmente prodotti raffinati del petrolio e componentistica di autoveicoli. Nel biennio 2018−19, l’area economica dell’ASEAN ha rappresentato il 13,9% del commercio totale australiano, una cifra destinata ad aumentare da quando è in vigore, nel 2010, il grande accordo commerciale minilaterale con il blocco dei dieci Paesi ASEAN e la Nuova Zelanda (l’ASEAN-Australia-New Zealand Free Trade Area – AANZFTA), che dovrebbe eliminare gradualmente le misure tariffarie e non tariffarie sul 90% di prodotti e servizi entro il 2025. Sebbene si tratti di una pietra
miliare nelle relazioni economiche bilaterali, è in fase di negoziazione il “Secondo protocollo” che consentirà, in tempi quantomeno rapidi, una revisione parziale di alcuni aspetti normativi (come, ad esempio, le procedure doganali e l’ecommerce) che dovranno tener conto delle differenze dei sistemi economici dei Paesi coinvolti.
Non essendo l’ASEAN un’unione doganale, l’Australia ha parallelamente siglato degli accordi commerciali bilaterali con Singapore (2002), Thailandia (2003) e Malaysia (2012). Il 5 luglio scorso è, infine, entrato in vigore l’Indonesia-Australia Comprehensive Economic Partnership Agreement (IACEPA), un accordo agognato che si pone come obiettivi la rimozione dei dazi e delle misure non tariffarie per il 99% delle esportazioni australiane dirette verso l’arcipelago indonesiano e l’impegno del governo di Giacarta di concedere alle imprese indonesiane permessi di importazione automatici su determinati prodotti e servizi australiani. Malgrado il significativo vantaggio della distanza geografica, nel biennio 2018−19 il volume di scambio tra l’Australia e l’Indonesia di beni e servizi appartenenti al medesimo settore produttivo (pari a quasi 18 miliardi di dollari australiani) rimane inferiore a quello che l’Australia e la Thailandia hanno fatto registrare nel medesimo periodo di tempo (poco meno di 25 miliardi). Attualmente, l’Indonesia è solo
il tredicesimo partner commerciale dell’Australia e ciò è dovuto non tanto a fattori culturali, quanto piuttosto a problemi burocratici e a carenze infrastrutturali che interessano sia le province orientali dell’Indonesia sia i territori settentrionali dell’Australia, i più contigui ai confini indonesiani.
L’Australia e i Paesi del Sud-Est asiatico ricorrono sovente agli accordi di libero scambio bilaterali, più vantaggiosi, che all’AANZFTA, anche se le aziende australiane ben integrate nella catena globale del valore, e che fanno affidamento su una precisa strategia di esportazione, tendono a preferire l’accordo di libero scambio minilaterale. Secondo l’ultima indagine pubblicata dalla Camera di Commercio AustraliaASEAN, che tiene conto di interviste somministrate su base volontaria, oltre l’80% delle aziende australiane operanti nel Sud-Est asiatico prevede nei prossimi cinque anni di espandere le proprie attività nella regione, e in particolare in Indonesia e in Myanmar, al netto dell’impatto non certo confortante avuto dalla pandemia da COVID-19 sulla crescita globale. Nondimeno, la rinnovata volontà dei Paesi ASEAN di favorire il processo di integrazione economica regionale attraverso la realizzazione dell’ASEAN Economic Community, rassicura il business australiano sul fatto che le opportunità
commerciali e di investimento saranno destinate a moltiplicarsi da qui ai prossimi decenni.
La convergenza di prospettive e interessi, come ebbe a dire Keating nel 1995 in occasione dell’annuncio della firma degli accordi di difesa con l’Indonesia di Suharto, non attiene solo agli affari, ma si manifestò anche nel campo della sicurezza. L’Australia è dal 2014 partner strategico dell’ASEAN, una collaborazione nel quadro della sicurezza che per la verità non risolve l’annoso problema della dipendenza strategica da cui entrambi gli attori sono accomunati. Oltre a ciò, Canberra è legata da una serie di accordi bilaterali con la Malaysia e Singapore (i Five Powers Defence Arrangements, risalenti agli inizi degli anni Settanta), con l’Indonesia (il Trattato di Lombok del novembre 2006) e con le Filippine (lo “Status
of Forces Agreements” del luglio 2012), i quali confermano quanto la sicurezza dell’isola discenda innegabilmente dalla stabilità garantita lungo i suoi confini settentrionali, con l’aiuto dei Paesi del Sud-Est asiatico. Come l’intervento militare a Timor Est di fine anni Novanta ha ampiamente dimostrato, l’Australia è stata in grado di raccogliere le adesioni di alcuni Paesi del Sud-Est asiatico (Thailandia su tutte) e porsi
alla guida di una forza internazionale di intervento nata allo scopo di ristabilire l’ordine in un’area, situata a quasi settecento chilometri da Darwin, vitale per gli interessi nazionali del continente australe.
Tuttavia, gli interessi strategici di Canberra travalicano il Mar di Timor e arrivano a lambire le calde acque del Mar Cinese Meridionale, l’arena della competizione strategica tra la Cina, da una parte, e gli Stati Uniti e suoi alleati, dall’altra. Nella riunione dei ministri della Difesa dello scorso febbraio,
l’Australia e i Paesi membri dell’ASEAN hanno convenuto sulla necessità di risolvere in maniera pacifica le controversie delle dispute territoriali tra Pechino e i Paesi ASEAN rivieraschi (Viet Nam, Filippine, Malaysia e Brunei), come prescritto dalla Carta delle Nazioni Unite, sulla base normativa
della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982, ratificata da larga parte degli Stati coinvolti. Si tratta di una dichiarazione stringata che si pone in perfetta continuità con altri documenti sottoscritti dall’ASEAN con altri attori regionali, compresa la bozza di codice di condotta ancora ferma alla fase preliminare di un negoziato senza fine tra i delegati diplomatici dell’Associazione e le controparti cinesi.
Ma da Canberra si levano numerose perplessità relative alle difficoltà di raggiungere un compromesso sulla sovranità, sulla giurisdizione e sul controllo delle zone marittime contese fintantoché i membri dell’ASEAN non negozieranno una posizione comune. Il contributo dell’Australia nel Mar Cinese Meridionale contempla non solo iniziative diplomatiche, bensì anche la partecipazione ad attività militari congiunte volte ad assicurare la libera navigazione delle principali rotte commerciali e il libero sorvolo dello spazio aereo sovrastante: rientra in questo spirito Gateway, operazione internazionale di pattugliamento aereo nel Mar Cinese Meridionale e nello Stretto di Malacca, condotta dalle forze dell’Aeronautica militare australiana e malaysiana. A completare il quadro di una cooperazione che si trova in una fase avanzata, infine, si inserisce anche il sostegno tecnico e logistico australiano alle operazioni di pattugliamento costiero e di gestione del traffico navale avviate, tra il 2012 e il 2019, dalla Thailandia,
dall’Indonesia e dalle Filippine. È un aspetto che non bisogna sottovalutare, se non altro perché consentirebbe all’Australia di centrare due importanti obiettivi: anzitutto, indurre i tre Paesi del Sud-Est asiatico a comprendere l’importanza di avere il pieno controllo del proprio dominio marittimo; in
secondo luogo, intervenire preventivamente in aree in cui essa detiene interessi legittimi, oggi più che mai sottoposte a minacce di varia natura quali la migrazione irregolare (diretta principalmente verso le coste australiane), la pirateria, il terrorismo, i traffici illeciti, lo sfruttamento illegale delle risorse marine e altri fenomeni contemplati all’interno del New Plan of Action to Implement the ASEAN-Australia Strategic Partnership 2020-2024 del 1° agosto 2019.
Un’alleanza che non s’ha da fare (per il momento)
Qualche anno fa l’Economist scriveva, in un editoriale dal sapore quasi nostalgico, che il mondo avrà molto da imparare dal modello politico, economico e sociale che l’Australia è riuscita a sperimentare nel corso degli ultimi trent’anni. Se sul piano interno la grande isola oceanica può con orgoglio fregiarsi del suo invidiabile tasso di crescita (se comparato con quello fatto registrare da molti Paesi europei), dei suoi conti pubblici in pareggio e dell’apporto positivo dei lavoratori migranti all’economia australiana, sul piano della proiezione esterna i progressi registrati negli ultimi decenni non hanno rivelato un coinvolgimento dell’Australia negli affari asiatici su basi e aspettative diverse rispetto al passato, mancando al
momento di tenere il passo con la trasformazione della composizione etnica della società australiana, che si avvia gradualmente a diventare euroasiatica16. Ad esempio, il fatto di continuare a rimanere ancorati al sistema difensivo occidentale non consente probabilmente all’Australia di candidarsi, di fronte ai Paesi ASEAN e agli alleati asiatici, come attore imprescindibile nel panorama asiatico e del Pacifico meridionale (in particolare, in Melanesia). Oltre alla già rammentata operazione militare a Timor Est, non si fa certo fatica a ricordare le poche iniziative in cui l’Australia è stata capace di costruire attorno a sé un ampio consenso internazionale: ultimo, in ordine cronologico, è la risoluzione presentata il 18 maggio dalla delegazione australiana all’Assemblea dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sull’apertura di un’inchiesta internazionale indipendente sulla pandemia da COVID-19, approvata grazie al sostegno di 130 Stati membri tra cui, unici Paesi del Sud-Est asiatico, l’Indonesia e la Malaysia. Va comunque detto che, tra alcuni leader e personalità politiche asiatiche come il leader in esilio dell’opposizione cambogiana, Sam Rainsy, l’Australia continua ad esercitare un’attrattiva sui Paesi dell’Asia orientale, per i valori democratici che rappresenta, per il sistema economico efficiente e per l’abilità di tutelare le diversità culturali all’interno di una società in costante crescita.
Molto spesso si è parlato della possibile adesione dell’Australia all’ASEAN. C’è chi la vede come una buona opportunità (l’ex premier malaysiano Mahathir Mohamad e l’attuale presidente indonesiano Joko Widodo), chi come una soluzione impraticabile (alcune figure del Dipartimento degli Affari Esteri e del Commercio australiano) e chi, invece, come un’occasione per sganciarsi dal potenziale conflitto sino-statunitense nel Mar Cinese Meridionale (Paul Keating). La presenza di una comunione di intenti in tematiche circostanziate e lo sviluppo di relazioni commerciali possono non bastare per convincere questo e i futuri governi dell’Australia a entrare a far parte dell’Associazione.
Al di là della difficoltà di accettare l’appartenenza geografica al Sud-Est asiatico, costituiscono dei grossi ostacoli all’adesione australiana le divergenze sui valori democratici e sui diritti umani, la compresenza di sistemi politici eterogenei all’interno dell’Associazione e la differenza di vedute sulle strategie da adottare in politica estera (un problema che riguarda, peraltro, l’ASEAN medesima in relazione, ad esempio, ai rapporti con la Cina). Contribuiscono, probabilmente, a urtare la sensibilità della diplomazia australiana le contraddizioni dei principi a cui Canberra ha aderito con la firma del TAC, nonché la filosofia diplomatica perseguita dall’Associazione e che può essere sintetizzata con la formula icastica “né una vittoria per uno, né una sconfitta per l’altro […]”.
Ci si chiede se l’ASEAN possa diventare il principale partner commerciale dell’Australia, in sostituzione della Cina. Nessuno componente del governo di Canberra negherebbe che esistono mercati alternativi sia all’interno che al di fuori della regione – come l’Arabia Saudita, che potrebbe ridurre la dipendenza dell’economia australiana dall’Asia orientale – ma i produttori australiani sono certi di non avere un ritorno economico di egual misura e, soprattutto, non ci sono mercati perfettamente sostitutivi delle esportazioni australiane di minerali e metalli, nonché di prodotti agricoli come l’orzo, recentemente colpito dalla furia dei dazi cinesi antidumping. Parallelamente, dal punto di vista strategico, sembra improbabile che l’Australia abbandoni gli storici alleati della regione in ragione dell’ASEAN. Come scritto nella nota di aggiornamento al già richiamato Defence White Paper, Stati Uniti, Giappone e Nuova Zelanda forniscono le adeguate coperture nell’Indo-Pacifico, mentre l’ASEAN è solo “una parte essenziale” – assieme alla Papua Nuova Guinea, a Timor Est e alle isole del Pacifico – dei piani di sicurezza australiani, ovvero, quasi un’area a cui garantire la difesa piuttosto che una pedina imprescindibile su cui fare affidamento in caso di minaccia o di un attacco proveniente dall’esterno. Nondimeno, resta il fatto che la sicurezza del SudEst asiatico è importante per l’Australia tanto quanto lo è la sicurezza dell’Australia per la regione nel suo complesso. Non è dato sapere se il rapporto di interdipendenza – fievole ma colmo di buone aspettative – si tramuterà in futuro in un’alleanza, ma è giunto il momento per entrambi gli attori di trovare un nuovo approccio di cooperazione e convivenza in un contesto di competizione regionale tra potenze che si appresta ad accendersi negli anni avvenire, e che potrebbe mettere a rischio gli affari bilaterali. Proprio per scongiurare l’avvento di un siffatto scenario, i politici australiani dovranno calibrare gli interessi dell’isola ricercando il giusto equilibro tra il binomio identità-passato, da una parte, e quello tra geografia-presente, dall’altra.
Di Raimondo Neironi
[Pubblicato su Rise]