In Corea del Sud, Giappone e Taiwan non si fanno più figli. I sussidi per incentivare le nascite non bastano e il progressivo invecchiamento della popolazione sta cambiando radicalmente le tre democrazie asiatiche, che dovranno pensare a un futuro diverso. Un estratto dal nostro e-book sulla Demografia Asiatica (clicca qui per sapere come ricevere i nostri approfondimenti tematici)
Più o meno sessant’anni fa in Corea del Sud veniva introdotto un programma nazionale di pianificazione familiare. Era il periodo dell’autoritarismo e del baby boom sudcoreano: la media sfiorava i sei figli per donna, specialmente nelle zone rurali, e si temeva che le risorse non sarebbero bastate per tutti. Si distribuivano preservativi, pillole contraccettive, e soprattutto si incentivavano le donne ad abortire. Già negli anni ’90, quando si decise di abbandonare il programma, nel paese il tasso di fecondità totale (TFT, il numero medio di figli per donna) era sceso sotto 2,1. Ovvero la soglia che permette a una popolazione di riprodursi mantenendosi numericamente costante nel tempo, tralasciando altri fattori. Il declino demografico era già cominciato, ma non era del tutto riconducibile alle politiche statali.
La popolazione della Corea del Sud ha iniziato ufficialmente a diminuire nel 2020 e nel 2022 il tasso di fecondità è sceso al minimo storico di 0,78, tra i più bassi al mondo. I timori si sono ribaltati. Se prima a spaventare era la quantità di bocche da sfamare, oggi è l’assenza manodopera e la conseguente possibile stagnazione economica. Il peso delle pensioni sulle finanze pubbliche, gli squilibri generazionali, il personale degli eserciti che si riduce proprio mentre si aggravano le tensioni internazionali. Il destino demografico di Seul e le sue preoccupazioni sono simili a quelle di altre due democrazie dell’Asia orientale: Giappone e Taiwan.
In Giappone le nascite hanno cominciato a ridursi già a partire dagli anni ’70 e quella del paese, escludendo il Principato di Monaco, è oggi la popolazione più anziana del pianeta, con 48,7 anni di età media. Da un decennio il TFT si è stabilizzato attorno a 1,3. Molto al di sotto della soglia di sostituzione, ma comunque superiore al valore sudcoreano e taiwanese (0,98 nel 2021). Entro il 2035, si prevede che il tasso di natalità più basso al mondo sarà quello di Taipei.
Le cause del calo demografico e l’inefficace risposta politica
Il tempo della pianificazione familiare è finito. Il presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol ha dichiarato che, tra il 2006 e il 2022, la Corea del Sud ha speso in politiche di natalità l’equivalente di oltre 200 miliardi di dollari. Il Giappone a sua volta sta provando a invertire il calo demografico nazionale da almeno 30 anni, aiutando le coppie tramite sussidi e facilitazioni all’assistenza all’infanzia. Negli anni 2000 le misure sono diventate più ambiziose. Tra alti e bassi, per un po’ hanno funzionato.
Ma nel 2022 la popolazione giapponese è diminuita per il dodicesimo anno consecutivo e sono nati meno di 800 mila bambini: una quota al ribasso che il Giappone non pensava di raggiungere prima del 2030. Il numero assoluto di donne nel paese si sta progressivamente riducendo e gli incentivi non bastano più. Da tempo anche Taiwan ha adottato misure simili a quelle di Tokyo e Seul, tra sussidi ai genitori e agevolazioni fiscali, con gli stessi (scarsi) risultati. Invece di rallentare, malgrado gli sforzi e i miliardi investiti, in Asia orientale si sta assistendo a un’accelerazione del fenomeno. Sempre meno matrimoni, sempre meno figli, sempre più anziani.
Il boom economico seguito alla seconda guerra mondiale si è sgonfiato negli ultimi decenni dello scorso secolo. Con l’aumento del costo della vita, la stagnazione degli stipendi (praticamente fermi in Giappone, Corea del Sud e Taiwan da quasi 20 anni) e la precarietà del mercato del lavoro, comprare casa e istruire i figli è diventato per molti proibitivo. Soprattutto in Asia orientale, dove iscrivere bambini e ragazzi a costose attività extrascolastiche, grazie alle quali potranno ambire alle migliori università, è diventato una sorta di dovere genitoriale.
Nel frattempo, l’istruzione superiore si è aperta anche alle donne, che sono così entrate nel mondo del lavoro conquistando indipendenza economica e maggiori libertà personali. In Corea del Sud, secondo i dati della Banca Mondiale, la percentuale di ragazze che ha frequentato l’università dopo la scuola superiore è passata dal 3% del 1971 al 93% del 2020. Si tratta di uno stravolgimento enorme, condiviso con Giappone e Taiwan, avvenuto in contesti nei quali la visione tradizionale prevede che la moglie resti a casa a occuparsi dei figli (e degli anziani della famiglia).
Buona parte delle donne asiatiche ora invece decide di non sottostare a certi vincoli e quindi di non sposarsi. In Corea del Sud si chiamano “bihon”, persone volontariamente celibi. Quello del matrimonio è un aspetto centrale per le politiche di natalità, visto che nella regione essere single o avere figli senza essere sposati è ancora stigmatizzato, specialmente dalle generazioni più anziane. In Giappone e Corea del Sud nasce fuori dal matrimonio solo il 3% dei bambini, ma ormai anche una percentuale progressivamente maggiore di chi si sposa non è intenzionato ad avere figli. Per le donne spesso è una decisione legata alla carriera: tuttora la prospettiva di una gravidanza futura è fonte di discriminazione da parte di capi e colleghi. La cultura del “super-lavoro” rappresenta poi una pressione sociale per entrambi i sessi, e molti neo-genitori non usufruiscono dei congedi a cui avrebbero diritto.
Nonostante le misure di sostegno economico abbiano dimostrato la loro scarsa efficacia nel favorire matrimoni e gravidanze, i governi dell’Asia orientale stanno proseguendo su quella strada. Taipei ha aumentato le retribuzioni per il periodo di congedo parentale, dal 2024 Seul alzerà ulteriormente i sussidi ai genitori di bambini con meno di un anno, e a gennaio il primo ministro giapponese Fumio Kishida ha dichiarato che il momento per fare qualcosa è “ora o mai più”, impegnandosi ad alzare il budget destinato all’educazione al 4% del PIL.
Gli stravolgimenti sociali, economici, politici e militari
Le tre democrazie asiatiche stanno dunque invecchiando. Se da un lato ciò indica un generale aumento delle aspettative di vita, dall’altro la crescita della sproporzione nel rapporto tra giovani e over 65 sta alterando molti aspetti della quotidianità. Cambiano le città, gli spazi pubblici – che iniziano a essere pensati per anziani e single – e quelli privati. Case fantasma, mini-appartamenti: il 40% delle famiglie sudcoreane è composto da una sola persona. Le aree rurali si spopolano, mentre crescono i residenti di Tokyo, Seul e Taipei, dotate di infrastrutture e sistemi di assistenza migliori. La concentrazione di persone nelle capitali alimenta però competizione e disuguaglianze, alzando il costo della vita come in un circolo vizioso. E in “provincia” sempre più anziani muoiono soli dopo aver vissuto gli anni della pensione al di sotto della soglia di povertà.
Al contempo, i tassi di occupazione degli over 65 in Corea del Sud e Giappone sono i due più alti del mondo: la pensione non basta più e chi può “lavora per tutta la vita”. Alzare le imposte e ridurre l’assistenza sanitaria diventa allora politicamente difficile. Piuttosto, nelle aziende si installano servizi per i lavoratori anziani. Il lato positivo è che c’è spazio per l’innovazione. La Corea del Sud è la prima nazione al mondo per densità di robot sul lavoro (mille ogni 10 mila dipendenti). In Giappone sono utilizzati nel 20% delle case di cura. Poi sensori di movimento, letti e vasche da bagno high-tech. Il settore della robotica per l’assistenza agli anziani potrebbe diventare un punto di forza delle società “super-aged” (quelle con un abitante su cinque over 65). Il Giappone lo è già, Taiwan e Corea del Sud lo diventeranno probabilmente nel 2025.
In realtà storicamente chiuse allo “straniero”, la crescita economica futura potrebbe dipendere molto anche dall’immigrazione, utile inoltre a frenare la tendenza alla delocalizzazione delle grandi aziende, che guardano soprattutto al Sud-Est asiatico. Nel 2023 in Corea del Sud è previsto un record di ingresso di lavoratori dall’estero (110 mila), e il governo taiwanese ha proposto 52 emendamenti alla legge sull’immigrazione per favorire l’arrivo di impiegati altamente qualificati. L’idea è di attrarne 400 mila nel prossimo decennio.
Il calo di manodopera investe anche gli eserciti, per cui si è ridotto il bacino degli arruolabili. Le forze di autodifesa giapponesi sono a corto di soldati e per spingere verso il rinnovamento Kishida ha promesso un’ingente espansione dell’arsenale militare entro il 2027, mentre quello di Seul è già uno degli eserciti più tecnologicamente avanzati al mondo (la robotica serve anche a questo). Investire negli armamenti è un’urgenza anche per Taipei, vista la potenziale minaccia cinese, ma ci sono cose che missili e robot non possono fare.
Comprendere i disagi e le trasformazioni sociali alla base del calo demografico, e adattarsi al cambiamento, potrebbe permettere ai governi di superare l’utilizzo indiscriminato delle politiche assistenziali limitate all’infanzia. Per gli esperti serve forse una riorganizzazione politicamente “creativa”. E quindi accettare la libertà femminile e l’ingresso degli stranieri. Probabilmente alzare le tasse, ma garantendo a tutti una casa, la prospettiva di un lavoro stabile e stipendi migliori. Investire nei nuovi settori che nasceranno. Elargire meno sussidi alla natalità dirottandoli su pensioni dignitose, pur alzando l’età del pensionamento. Alla fine sudcoreani, giapponesi e taiwanesi potrebbero tornare a fare più figli e il ciclo potrebbe ricominciare. Mal che vada, vivranno meglio.
di Francesco Mattogno