Nel Myanmar dell’emergenza Covid-19 il governo sta facendo tornare a casa i suoi emigrati all’estero. Alcuni sono «ufficiali», altri lavoravano più o meno clandestinamente in Cina nelle piantagioni di canna o banane e mille, scriveva qualche giorno fa il Myanmar Times, sono tornati a casa per vie altrettanto clandestine. Ma secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) sarebbero oltre 3 milioni i birmani che lavorano all’estero. Secondo Ong locali e straniere, i birmani più o meno stagionali sono nella sola Thailandia più di 2 milioni.
NUMERI IMPRESSIONANTI che l’emergenza ha portato alla ribalta e che dicono molto su cosa succede in caso di pandemia.
Alla perdita del lavoro si accompagna l’espulsione e un futuro incerto nel proprio Paese da cui non si è certo partiti per turismo. Per quelli che restano – perché non vogliono o non possono tornare a casa – va anche peggio, perché all’estero non c’è la protezione della cittadinanza e men che meno la rete sociale dei villaggi.
Nella sola Malaysia, circa un milione di lavoratori migranti indonesiani soffrono la fame a causa del parziale lockdown in atto nel Paese, come hanno denunciato in aprile i volontari della Nahdlatul Ulama, la più grande organizzazione islamica d’Indonesia.
Un’inchiesta del South China Morning Post ha rivelato le condizioni drammatiche dei migranti nella ricca Malaysia che ne ospita temporaneamente 5,5 milioni, «dei quali – circa 3,3 milioni – privi di documenti». Provengono principalmente da Indonesia, Bangladesh e Nepal.
Se gli indocumentati e i migranti stanno male, non se la passa bene nemmeno chi aveva un lavoro «sicuro» in qualche fabbrica. Nel tessile ad esempio che in Asia occupa decine di milioni di lavoranti. Cento nella sola India, oltre 3 e mezzo in Bangladesh. Nel continente il tessile calzaturiero su commissione è un architrave dell’export di molti Paesi.
UN EXPORT che fa fare profitti soprattutto a chi utilizza la filiera del lavoro asiatico per abbassare i prezzi. Fabbriche in Thailandia, Cambogia, Vietnam, Myanmar. Sedi e negozi a Parigi, New York, Milano.
Del resto quasi mezzo miliardo di persone nel mondo lavora oggi meno ore retribuite di quanto vorrebbe o non ha accesso a un lavoro a un salario equo, dice il rapporto Ilo World Employment and Social Outlook – Trends 2020: e nonostante l’Asia sia un continente che se la cava meglio di altri «la scarsa qualità del lavoro e gli alti tassi di informalità rimangono la sfida…Nel 2019 nonostante il progresso economico degli ultimi decenni, 79,1 milioni di lavoratori -il 4,2% – sono rimasti in estrema povertà e 277 milioni – il 14,6% – vive ancora in moderata povertà». Il virus ha peggiorato le cose.
QUANTO ALL’INDUSTRIA della moda, la pandemia l’ha travolta, minando le lotte per la protezione sociale e la sicurezza, i salari equi, la libertà sindacale. Anche perché molte «firme» non pagano ordini già eseguiti o ritirano quelli in produzione. Da sapere quando ci compriamo un vestitino o le scarpette. La situazione è così grave (alcune fabbriche riaprono ma lasciano a casa molti lavoranti) che a Dacca, domenica scorsa, ci sono state manifestazioni pubbliche per il salario nonostante il lockdown. Rischioso. Pagare il giusto le avrebbe evitate.
UNA DICHIARAZIONE CONGIUNTA dell’Organizzazione Internazionale delle Imprese (Ioe) e dei Sindacati Internazionali (Guf) lancia un appello per mitigare la perdita massiccia di vite, posti di lavoro e reddito. Si chiede ai marchi di sottoscriverlo ma finora in molti fan orecchie – è il caso di dirlo – da mercante: Arcadia, ASOS, Bestseller, C&A, EWM/Peacocks, Gap, JCPenney, Kohl’s, Mothercare, Next, Primark, Tesco, Under Armour, Urban Outfitters e Walmart/Asda non hanno ancora preso alcun impegno. In Italia la Campagna Abiti Puliti ha chiesto trasparenza a importanti firme della moda come Armani, Benetton, Calzedonia, Ferragamo, Geox, Gucci, Miroglio, Moncler, OVS, Prada, Salewa, Versace, Zegna.
AL MOMENTO solo Prada e Salewa hanno fornito rassicurazioni sul fatto che rispetteranno gli impegni assunti prima del virus con i fornitori. Il network della Clean Clothes Campaign monitorerà gli impegni dichiarati dalle aziende e ne renderà conto pubblicamente. Nei giorni scorsi Abiti Puliti ha scritto a Conte e ai ministri responsabili del «Cura Italia»: «Riteniamo – dice Deborah Lucchetti responsabile della Campagna – che solo le aziende che dimostrino di saper proteggere sia i propri lavoratori sia quelli che appartengono all’intera catena di fornitura debbano poter contare su misure pubbliche di sostegno».
Di Emanuele Giordana
[Pubblicato su il manifesto]