Cosa implica il caso Peng per il movimento #MeToo? Tanto per cominciare, può essere considerato un caso di “violenza sessuale”? Come ne stanno parlando gli organi d’informazione in Cina e in Occidente?
Una tennista giovane e avvenente, un uomo di mezza età molto potente, e un regime autocratico con l’ossessione per il controllo sociale. Doveva essere la pietra angolare del #MeToo cinese, e invece il caso della tennista Peng Shuai ha tutti gli ingredienti per diventare uno scandalo politico e un tsunami diplomatico di portata internazionale.
Brevemente la notizia: lo scorso 2 novembre Peng, ex numero uno del ranking di doppio, ha accusato il vicepremier, Zhang Gaoli, di averla forzata ad avere rapporti sessuali. Secondo la testimonianza pubblicata sull’account Weibo della tennista, i due avevano cominciato una frequentazione quando il funzionario prestava servizio nella città di Tianjin, diversi anni fa. Un rapporto che la ragazza ricorda con un misto di nostalgia, affetto e rancore. Nel post (non verificato) la trentacinquenne racconta di come Zhang, temendo di essere scoperto, non l’avesse mai contattata mentre prestava servizio nel comitato permanente del Politburo, il ghota del potere, costringendola “ad avere una relazione” con lui solo una volta lasciati gli incarichi ufficiali. “Non ho mai acconsentito quel pomeriggio, e ho pianto tutto il tempo”, spiega Peng ricordando con umiliazione come dieci anni dopo la rottura l’ex vicepremier l’avesse indotta nuovamente a fare sesso con la complicità della moglie dopo un invito a giocare a tennis. Tra alti e bassi, i due hanno mantenuto i contatti fino a pochi giorni prima dello sfogo. Il post è diventato immediatamente virale prima di finire sotto la scure della censura.
Da allora Peng ha interrotto la comunicazione con l’esterno. Sparita per giorni, è ricomparsa dopo gli appelli della comunità internazionale in una serie di foto e video apparentemente coreografati, diffusi dai media statali che la ritraggono prima in un ristorante insieme al coach, poi ad un evento sportivo e poi ancora in una call con il presidente del Comitato Olimpico Internazionale Thomas Bach.
Prima di allora nessun funzionario cinese di così alto livello era mai stato accusato pubblicamente di “violenza sessuale”. Il caso di Peng arriva in un momento particolarmente delicato per il movimento #WoYeShi (#MeToo in mandarino), decollato oltre la Grande Muraglia nel 2018 grazie alle coraggiose testimonianze di attiviste e ragazze comuni. Ad agosto la pop star Kris Wu è stata arrestata per stupro, mentre le università cinesi hanno introdotto “regole morali” per il personale accademico dopo la denuncia di alcune studentesse. Piccole vittorie che, sfidando la struttura patriarcale della società cinese, hanno incoraggiato la diffusione di un dibattito femminista on e offline. Ma che vengono ridimensionate da altrettante sconfitte. Solo nell’ultimo anno sui social network locali decine di account femministi sono stati chiusi. Chi si batte per i diritti delle donne – spesso in tandem con Ong straniere – sempre più frequentemente diventa bersaglio di critiche nazionalistiche o persino vittima di arresti.
Le autorità si mantengono su posizioni ambigue. Solo due mesi fa un tribunale di Pechino ha scagionato per mancanza di prove il giornalista televisivo Zhu Jun, denunciato per molestie da una ex tirocinante. Quello dell’onere della prova è uno dei principali ostacoli incontrati dalle vittime. “Non c’è registrazione audio, nessuna registrazione video, solo la mia esperienza distorta ma molto reale”, ammette la stessa Peng Shuai nella sua testimonianza.
Cosa implica il caso Peng per il movimento #MeToo? Tanto per cominciare, può essere considerato un caso di violenza sessuale? Qualcuno ha sottolineato come la consensualità del rapporto, per quanto discontinua, renda impropria l’utilizzo del termine “abuso”. Nei suoi ricordi la tennista non parla mai esplicitamente di aggressione. Se prendiamo in esame i commenti sfuggiti alla censura, solo alcuni utenti cinesi associano la storia di Peng al #MeToo, mentre l’hashtag compare con frequenza martellante sulla stampa internazionale così come nei commenti delle femministe cinesi residenti all’estero.
Definendo per la prima volta il termine “molestie”, il codice civile cinese entrato in vigore lo scorso gennaio stabilisce che le responsabilità derivano da “discorsi, messaggi scritti, immagini o atti fisici che siano stati utilizzati per commettere molestie sessuali mediante abuso di posizioni sociali o lavorative.” Una descrizione sufficientemente ampia da includere la pressione psicologica, specie se a esercitarla è un uomo con lo status di Zhang Gaoli. Specie in un contesto sociale fondato sulle gerarchie come quello cinese.
La narrativa veicolata dagli organi d’informazione statali conferma l’attaccamento a una visione fortemente sessista: “Può una ragazza fingere un sorriso così solare sotto pressione?”, è la domanda retorica con cui il giornalista Hu Xijin ha cercato di supportare l’autenticità delle sequenze che immortalano la tennista circondata da bambini durante un incontro sportivo. La giovane età e il genere femminile sono due attributi strumentalizzati spesso dalla propaganda per trasmettere un senso di innocenza e rassicurare in situazioni di tensione.
Certo, rimane da capire se le denunce sono fondate, se davvero le ha scritte Peng di proprio pugno, se le recenti apparizioni sono pilotate, come sembra. Nel frattempo, però il focus del dibattito rischia di deviare verso questioni tangenziali, come le tecniche censorie dispiegate da Pechino per controllare le informazioni in rete. Digitando “Peng Shuai” su Google bisogna scorrere parecchio per trovare riferimenti espliciti al #MeToo, mentre la maggior parte dei titoli allude allo scandalo con toni sensazionalistici (Es: “Sesso col Vicepremier”). Il tempismo della denuncia, poco prima del sesto plenum del Partito comunista cinese, ha dirottato l’interesse degli analisti internazionali sui possibili risvolti politici del caso. C’è chi ipotizza persino che la tennista sia coinvolta in una lotta di potere tra il presidente Xi Jinping e i suoi rivali.
Per l’Occidente, poi, il caso Peng sembra ormai diventato l’ultimo affondo nella campagna contro le Olimpiadi invernali di Pechino, portata avanti dalle organizzazioni per i diritti umani e abbracciata da alcuni governi stranieri. Annunciando il boicottaggio diplomatico, l’amministrazione Biden ha lasciato intendere che la storia della sportiva abbia inciso quasi quanto le politiche etniche adottate nello Xinjiang.
La speranza è che, giocando di sponda, le polemiche riescano ugualmente a tenere viva l’attenzione nei confronti del femminismo cinese. Mentre nessuno sa con certezza dove sia realmente Peng, l’attivista Sophia Huang Xueqin, nota per le sue battaglie contro le violenze, si trova agli arresti da mesi con l’accusa di sovversione del potere statale.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su Gariwo]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.