Il 2015 è stato per la Repubblica indiana l’anno del disincanto, l’anno in cui sono emerse tutte le contraddizioni in seno alla maggioranza di governo guidata da Narendra Modi: se da un lato si promettono riforme copernicane in campo economico, dall’altro le spinte estremiste hindu finiscono per ostacolare l’azione di governo e, soprattutto, diffondere terrore tra le diverse minoranze etniche e religiose del paese.La personificazione della politica portata all’estremo nel 2014 dalla vittoria di Narendra Modi alle elezioni nazionali, anche nel 2015 è stata in grado di oscurare quasi totalmente il resto del variegatissimo panorama politico nazionale.
Se per i primi sei mesi dell’anno gli «acche din» – sì, possiamo renderlo bene con «happy days» – promessi da NaMo al popolo indiano rappresentavano il voto alla crescita in divenire che un uomo solo al comando aveva esteso al proprio popolo adorante, nella seconda metà dell’anno le proiezioni entusiastiche del Pil si sono alternate a problemi troppo a lungo sottovalutati che nel 2016, con una tornata di elezioni statali alle porte, presenteranno il conto a un’amministrazione che ha promesso moltissimo ma che ha dimostrato ancora pochino.
Come da titolo, per chi scrive il 2015 indiano è stato l’anno del disincanto. Entrando nel secondo anno di mandato dell’amministrazione Modi, nel paese sta iniziando a prendere forma un sentimento generalizzato di cautela a contrastare lo slancio euforico del 2014, quando l’elettorato indiano aveva inequivocabilmente affidato i propri sogni di crescita al neo-leader del Bharatiya Janata Party (Bjp) mandando in pensione la precedente amministrazione dell’Indian National Congress.
L’entusiasmo collettivo della Modi Wave si è mantenuto intatto per la prima metà del 2015, quando i bagni di folla del premier accolto dalle comunità festanti di Non Resident Indian (Nri) all’estero andavano a braccetto con proclami fatti in palazzetti dello sport strapieni, in conferenze stampa coi potenti della Terra, ripetendo allo sfinimento la profezia dell’India che si solleva dalle ceneri di una crescita insoddisfacente, pronta a giocare un ruolo di primo piano nella leadership internazionale: sia quella economica, con proiezioni che ne fanno il primo paese per crescita annua tra le grandi economie in via di sviluppo stimando un incremento superiore al 7 per cento annuo, sia quella politica, con scatti in avanti come la risposta tempestiva al terremoto nepalese, il summit India Africa di New Delhi, la battaglia al Cop21 di Parigi (pur uscendone perdente). A livello d’immagine, è innegabile che l’India di Narendra Modi sia riuscita a mantenere all’estero la facciata di un paese lanciato a bomba verso la crescita, deciso a ridurre l’enorme gap infrastrutturale che, fino ad oggi, non ha permesso lo sprigionamento di tutto quell’«untapped potential» del subcontinente.
In una valutazione aritmetica dell’avvenire, grazie alla campagna Make in India Modi ha saputo riportare – e tenere – l’India al centro dell’attenzione degli investitori, in linea col progetto di crescita che prevede l’attrazione di Foreign Direct Investments (Fdi) nel paese per incentivare la crescita (Fdi che, quest’anno, sono arrivati in misura considerevole). Ma gli investimenti in arrivo non possono prescindere dalla situazione locale indiana, che quest’anno ha mostrato le diverse debolezze dell’esecutivo del Bjp.
In primis, nel 2015 Modi e il Bjp hanno scoperto di non essere imbattibili, perdendo prima le elezioni municipali di New Delhi – dall’alto valore simbolico – uscendo sconfitti dal ritorno dell’Aam Admi Party di Arvind Kejriwal e, soprattutto, dalla disfatta del Bihar, dove la coalizione tra Nitish Kumar e Lalu Prasad Yadav ha spazzato via il Bjp. La doppia sconfitta alle urne ha avuto l’effetto di rottura dell’incantesimo, mostrando al paese che Modi e il Bjp – nonostante una sostanziale assenza di opposizione politica a livello nazionale – a livello locale non sono imbattibili, non detengono l’esclusiva della ricetta di governance indiana e, soprattutto, presentano delle enormi contraddizioni interne potenzialmente esplosive nel futuro prossimo.
Parliamo delle frange estremiste interne al Bjp – e ancora di più tra gli alleati locali – votate all’agenda ultrainduista dell’hindutva, capaci di intemperanze che sfociano nella follia come nel linciaggio di Dadri o nella sistematica minaccia all’incolumità delle minoranze etniche, religiose e intellettuali progressiste del paese. In una parola: intolleranza.
Il tema dell’intolleranza ha monopolizzato il dibattito politico della seconda metà dell’anno, complice un attivismo senza precedenti di decine di intellettuali del paese che hanno denunciato il deteriorarsi della pace sociale indiana causato dall’estremismo hindu. Del quale Modi, più che sostenitore, in questa fase storica sembra essere più prigioniero, incapace di far serrare i ranghi della propria maggioranza attorno alla «mission» delle riforme economiche, di contenere l’aggressività di chi – dal Shiv Sena a Mumbai fino alle «schegge impazzite» della Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss) – ha voluto far coincidere la vittoria del conservatorismo hindu nel 2014 con un ritorno di istanze settarie (in gran parte anti musulmane) che non fanno bene né al paese né, come ha ben detto il direttore della Banca centrale indiana Raghuram Rajan, agli affari.
Il risultato diretto di questa mancanza di controllo da parte di Modi – personaggio ossessionato dall’accentramento del potere che, scientemente, ha rosicchiato voti agli stessi alleati «più a destra» del Bjp, spingendoli a un ripiego all’agenda ideologica pro-hindu a fini elettorali locali – è stato aprire il fianco a un’opposizione parlamentare prima d’ora assolutamente frammentata (e quindi inefficace), che nella sessione parlamentare invernale è riuscita invece a trovare una comunione d’intenti ideologica per fare ostruzione, bloccando una serie di leggi fondamentali per i progetti di riforma economica di Modi (in particolare sulla tassazione e sulla compravendita di terreni).
La sfida per il 2016 sarà trovare un nuovo modo di fare campagna elettorale – specie nelle elezioni locali dell’Uttar Pradesh – rinunciando alla tentazione del voto settario (che il Bihar insegna, non paga più) e migliorare la gestione delle istanze estremiste in seno alla maggioranza di governo.
Solo in un clima più conciliante Modi sarà in grado di far passare in parlamento le riforme necessarie al cambio di passo economico indiano, prerequisiti fondamentali per mettere basi solide a una crescita concreta e duratura, approfittando del rallentamento economico generale che ha colpito in particolar modo la Cina, vista – secondo chi scrive, esagerando in ottimismo – come un «direct competitor» indiano.
[Scritto per East online]