Migliaia di soldati nordcoreani sarebbero già in Ucraina. Tre domande: cosa ci guadagna hashtag#Kim con l’invio di truppe e armamenti per Putin? Come risponderà l’Occidente? E cosa farà la Cina, tradizionale partner di Pyongyang, di fronte a questa estensione “asiatica” del conflitto?
Un primo passo verso una guerra mondiale”. Così il presidente ucraino Volodymir Zelensky il 17 ottobre commentava la notizia dell’arruolamento di oltre 10.000 militari nordcoreani al fianco di Mosca. Da giorni l’intelligence della Corea del Sud sostiene che almeno 3000 soldati e tecnici del Nord “siano già presenti in Russia, un numero pari al doppio rispetto a quanto immaginato”, come confermato dal Segretario alla Difesa americano Lloyd Austin. Per Zelensky, alcuni generali si troverebbero persino in Ucraina, nei territori occupati dalla Russia, mentre anche la NATO ritiene che parte dei nordcoreani siano nella regione russa di Kursk, dove le forze ucraine dallo scorso agosto in poi hanno condotto un’incursione.
I moventi di Kim
Con 1,3 milioni di effettivi, l’esercito della Corea del Nord è uno dei più grandi al mondo. Secondo i servizi sudcoreani, arrivati a inizio ottobre a Vladivostok, nell’Estremo oriente russo, i primi soldati del Nord appartengono alle forze speciali soprannominate “Corpo della Tempesta”, che Il 21 gennaio 1968 ha autografato lo storico raid della Casa Blu di Seul e in tempi più recenti si è occupata di presidiare il confine con la Cina durante il Covid. Mentre negli anni ‘70 piloti di caccia nordcoreani sono stati coinvolti nelle guerre del Vietnam e dello Yom Kippur (tra Israele, Egitto e Siria), se davvero si materializzerà con i numeri previsti da Zelensky quello in Ucraina segnerebbe il primo dispiegamento all’estero del Nord in un’operazione di terra su larga scala. Un grande balzo in avanti reso possibile dall’intesa conclusa a luglio tra il capo supremo della Corea del Nord Kim Jong Un e il presidente russo Vladimir Putin.
L’accordo, che comprende una clausola di difesa reciproca in caso di “aggressione” contro uno dei due Paesi, ha enormemente rafforzato la cooperazione militare tra Mosca e Pyongyang: si ritiene che ciò abbia comportato la fornitura ai russi di oltre 70 carichi di munizioni nordcoreane (proiettili, missili e razzi anticarro), in cambio di assistenza tecnica. Nell’ottica del reciproco vantaggio, il coordinamento in Ucraina darebbe all’esercito russo, indebolito dalle consistenti perdite umane e di materiali, un po’ di respiro, mentre per la Corea del Nord è l’occasione di testare sul campo il proprio arsenale, guadagnare valuta forte (comunque più forte della propria), ricevere addestramento nell’utilizzo di droni e altri armamenti utili nelle schermaglie con il Sud, e soprattutto coltivare relazioni con un interlocutore alternativo alla Cina.
Come ci spiega Gianluca Spezza, Direttore dell’Istituto per gli studi coreani in Medio Oriente presso l’American University of Kurdistan di Duhok (Iraq), “la Corea del Nord ha sempre avuto un debito con Russia e Cina, e lo avrà finché il regime dura. Quindi non è molto sorprendente che abbia mandato delle truppe specializzate. Truppe specializzate che sono anche molto preparate e addestrate ad usare equipaggiamenti o armamenti di provenienza cinese e/o russa”. L’aspetto ideologico tuttavia spiega solo in parte la scelta di Kim, che – secondo l’esperto – è molto più influenzata da fattori economici. Il vero movente va cercato nella rivalità tra Kiev e Pyongyang per chi deve prendere gli aiuti americani. A Kim non va giù che con l’amministrazione Biden gli Stati Uniti stanno destinando le proprie risorse all’Ucraina. Un paese a cui Washington sostanzialmente non deve nulla, e con il quale non ha legami strategici tanto forti quanto con la penisola coreana.
Le conseguenze dell’accordo
Molto è stato detto sulla dubbia qualità delle munizioni nordcoreane. Così anche l’arrivo dei “mercenari”, senza esperienza di combattimento in situazioni reali e a rischio diserzione, difficilmente cambierà sostanzialmente l’andamento della guerra in Europa. Stando alla stampa ucraina, almeno sei soldati del Nord sono morti a inizio ottobre durante un attacco missilistico, mentre altri 18 sono fuggiti da Donetsk, dove erano stati mandati per imparare come “contrastare le armi occidentali”.
A fare la differenza sarà, in caso, la risposta dell’Occidente. Su The Conversation, Ra Mason, docente di Relazioni internazionali presso l’Università dell’East Anglia, avverte come ai sensi del diritto internazionale la NATO potrebbe intervenire in caso di violazioni delle regole di ingaggio, quali l’impiego di mercenari nordcoreani nella regione del Donbass considerata territorio ucraino. Scenario che renderebbe lecito l’uso proporzionato della forza – incluso l’intervento di personale straniero – per contrastare qualsiasi successiva avanzata russa. Condizione che invece non sussisterebbe qualora la partecipazione dei nordcoreani fosse limitata a ruoli tecnici e logistici.
Per ora, Zelensky è parso voler sfruttare il coinvolgimento di Pyongyang a fianco di Mosca soprattutto sul piano diplomatico. Ovvero per far passare il famoso “Piano della vittoria” in cinque punti, su cui gli alleati americani ed europei tentennano. Senza arrivare a tanto Kiev potrebbe comunque ottenere qualche concessione rilevante se, come chiesto dalla NATO, Washington dovesse rispondere all’arrivo delle truppe di Kim rimuovendo i limiti sulle forniture di armi all’Ucraina.
I riverberi della guerra nell’Asia-Pacifico
Nell’immediato è forse l’Asia-Pacifico ad avvertire l’impatto più forte dell’ingresso nordcoreano nella guerra russo-ucraina. Per ora limitatamente ai preoccupanti sviluppi in corso al 38°parallelo, dove la tensione torna ciclicamente a crescere. Ora il rischio è che, incoraggiato dal sostegno russo, Kim possa spingersi oltre le consuete provocazioni missilistiche. Sul piano simbolico, lo ha già fatto pochi giorni fa stracciando gli storici piani per una riunificazione con il Sud, ora bollato come “peggior nemico”.
D’altronde, in gravi difficoltà finanziarie com’è, sembra improbabile che Pyongyang si sia privata delle sue preziose scorte militari incondizionatamente. Vale a dire senza una qualche garanzia da parte di Mosca. Magari sulla falsariga dell’”ombrello nucleare” assicurato da Washington a Seul? Se così fosse, il rischio di un effetto domino nella regione non sarebbe più un’ipotesi così remota.
Soprattutto qualora, in cerca di un diversivo, Putin dovesse decidere di “scatenare” Kim e aprire un nuovo fronte caldo con l’Occidente, dall’altra parte del mondo: lontano dall’Ucraina e dal Medio Oriente. In quel caso quanto finora evitato diventerebbe inevitabile: un’estensione del conflitto con una nuova “guerra per procura” nell’Asia-Pacifico. Seul ha già annunciato che intensificherà la condivisione di informazioni con la NATO. Con la minaccia, se necessario, di cominciare ad armare direttamente l’Ucraina, andando oltre l’attuale esportazione di forniture militari agli alleati di Kiev, Polonia in primis.
La posizione scomoda di Pechino
A guardare con preoccupazione il susseguirsi degli eventi c’è la Cina, che dei soldati nordcoreani dice di non sapere nulla, ma auspica “una soluzione politica” per mantenere “pace e stabilità nella penisola” coreana. Un augurio comprensibile. L’alleanza tra Kim e Putin presenta vantaggi e svantaggi per la Repubblica Popolare che, condividendo il proprio confine terrestre tanto con la Russia quanto con la Corea del Nord, considera la stabilità nei due Paesi una questione di sicurezza nazionale.
Ricorrendo al supporto nordcoreano, Mosca sembra confermare che al di là della comprovata fornitura di prodotti dual use (persino sistemi d’arma completi), la Cina non starebbe contribuendo all’”operazione militare speciale” in Ucraina nella misura auspicata. Per Pechino, che in Europa sta scontando un peggioramento dei rapporti a causa dell’”amicizia senza limiti” con Putin, la cooperazione tra Pyongyang e Mosca rappresenta quindi un alibi per sfilarsi dagli oneri assistenziali a cui ha storicamente dovuto adempiere nello spirito del buon vicinato.
Allo stesso tempo, tuttavia, un Kim Jong Un più autonomo rischia di trasformarsi in una “mina vagante”, a fronte di un quadro regionale sempre più complicato. Oltre ai numerosi contenziosi territoriali nel Mar Cinese – per non parlare delle tensioni nello Stretto di Taiwan – le presidenziali americane costituiscono un’ulteriore incognita. In passato la Cina non ha mancato di sfruttare il presunto “controllo” sulla Corea del Nord come jolly nei rapporti con Washington.
Perdere quel privilegio potrebbe privare Pechino di una leva negoziale, soprattutto nel caso di una vittoria di Donald Trump; l’ex presidente statunitense ha già lasciato intendere che proverà a replicare la strategia del dialogo con Kim, nonostante l’insuccesso dei precedenti tre incontri del 2018 e 2019. Se a prevalere sarà Kamala Harris, l’instabilità nella penisola coreana potrebbe invece fornire alla nuova amministrazione Dem un motivo aggiuntivo per rafforzare i sodalizi militari con gli alleati regionali. Senza contare il danno reputazionale per la Cina. Pechino ha ben poca voglia di venire associata a una possibile triplice alleanza con Russia e Corea del Nord, l’unico Paese con cui ha in essere un accordo di mutua difesa e che sarebbe tenuta a spalleggiare in un eventuale conflitto.
La “guerra mondiale” vagheggiata da Zelensky è un’eventualità ancora lontana, ma che l’Asia prende molto sul serio.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su Aspenia]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.