Nel bel mezzo dello scontro dei dazi, quando Trump ha annunciato il divieto per Huawei di acquistare componentistica tecnologica americana, il presidente cinese Xi Jinping si era recato presso una fabbrica di lavorazione delle terre rare, quell’insieme di metalli che nel nuovo mondo dominato da tecnologia e «green economy» è diventato fondamentale per gli equilibri economici mondiali. La mossa di Xi era piuttosto significativa, oggi la Cina ha il monopolio per quanto riguarda le terre rare, così come era chiaro l’avvertimento: se Pechino chiude quel rubinetto, non basteranno i dazi a risollevare l’economia americana e occidentale.
La United States Geological Survey nell’ultimo indice ha infatti specificato che Pechino produce il 44% dell’indio consumato nel mondo, il 55 di vanadio, il 65 di fluorite e grafite naturale, il 71 di germanio e il 77 di antimonio, nonché il 61 di silicio. Nomi complicati per metalli preziosi, carburante fondamentale per i nostri smartphone, tv, aggeggi domestici, materiale elettrico e per la cosiddetta «transizione energetica». Perché sono così importanti questi metalli e in che modo sono in grado di scatenare nuovi scontri geopolitici? Le risposte a queste – e altre – domande sono contenute all’interno di La guerra dei metalli rari (Luiss University Press, pp. 211, euro 20, traduzione di Ondina Chirizzi, con prefazione di Stefano Liberti) del giornalista e documentarista francese Guillaume Pitron.
IL VOLUME INDAGA alcuni aspetti legati alla nostra contemporaneità, a partire da quella transizione energetica e digitale che, se ci ha allontanati dalla dipendenza da petrolio e carbone, o almeno si prefigge di farlo, ha aperto nuovi inquietanti interrogativi in termini di inquinamento e nuove strategie di scontro tra potenze. E più di tutto pone domande sulle responsabilità occidentali nel maneggiare il passaggio a un’economia verde, senza considerare le sue conseguenze più nefaste. Pitron parte da un punto piuttosto preciso: impegnandoci nella transizione energetica, scrive, ci siamo messi nelle fauci del Drago cinese. Fare a meno del petrolio e del carbone e spostare tutto l’impegno sulla produzione «green» non ha infatti eliminato il problema dell’inquinamento.
La lavorazione dei metalli rari è faticosa e dispendiosa; fare in modo che questo processo non porti a conseguenze devastanti per l’ambiente è costoso. Per questo l’Occidente ha compiuto un passo deleterio, oltre che poco lungimirante. Pur essendo dotato e fornito di questi metalli rari, la nostra parte di mondo ha deciso di esternalizzare questo «lavoro sporco» alla Cina, da cui poi finisce per acquistare i prodotti finiti, «puliti». Acquisti convenienti, perché la Cina «per accelerare il trasferimento della produzione mineraria dall’Ovest verso Est, ha utilizzato un pericoloso stratagemma commerciale che continua ad attuare tutt’oggi». Si tratta di una duplice forma di dumping: sia sociale, perché in grado di abbattere i costi della manodopera, sia ambientale perché «come ricorda il militante ecologista Ma Jun, i lavori di riparazione dei danni economici non sono stati inclusi nei costi di produzione». Gli effetti: nel 2002 un chilo di terre rare prodotte in Cina costava mediamente 2,8 dollari, due volte meno che negli Usa (che pure hanno la possibilità di accedere, in loco, alle risorse).
Potremmo dire che sulle terre rare è accaduto quanto è successo con la produzione manifatturiera: l’Occidente ha lasciato campo libero alla Cina, investendo in joint ventures, approfittando del basso costo del lavoro, di legislazioni più bislacche per quanto riguarda ambiente e sicurezza sul lavoro, salvo poi ritrovarsi di fronte una potenza economica capace di utilizzare quanto raccolto dalla produzione manifatturiera per finanziare aziende che si sono ben presto imposte sui mercati mondiali anche in altri settori, e di sfruttare il know how «catturato» dalle partnership con aziende straniere.
L’ESEMPIO DELLO SLANCIO tecnologico della Cina è lampante: Pechino dopo aver prodotto a basso costo tutto quanto consente a prodotti elettrici e componenti di materiale tecnologico di funzionare, grazie alla delocalizzazione della produzione di paesi occidentali – o asiatici, come il Giappone – ha saputo raccogliere le conoscenze e agganciarle alla propria gigantesca macchina produttiva, cominciando a inserirsi negli spazi più remunerativi della filiera. Ecco spiegata la trasformazione attuale della Cina diventata ormai una potenza tecnologica. Tutto questo è il risultato di grande lungimiranza da parte della dirigenza cinese – fu Deng Xiaoping a dire che «il Medio oriente ha il petrolio, la Cina le terre rare» – e dell’incredibile mancanza di visione sul futuro da parte delle potenze occidentali.
Secondo Guillaume Pitron, nel cui libro si alternano informazioni di carattere scientifico e geopolitico, mischiati a un passo da reportage attraverso le visite a diverse miniere, in Cina e in Occidente, impegnate nell’estrazione e nella lavorazione delle terre rare, «avremmo dovuto dare le spalle a una logica di puro profitto sovvenzionando, in perdita, l’estrazione di metalli rari negli Stati occidentali, dove i principi elementari di responsabilità ecologica erano rispettati».
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.