Fino al mese scorso la pagina in lingua italiana di Wikipedia dedicata al caso dei due marò – “Crisi diplomatica fra India e Italia del 2012-2013” – descriveva l’evento come «una controversia internazionale sorta per via di una sparatoria avvenuta nel Mar Arabico il 15 febbraio 2012, a largo della costa del Kerala (sud dell’India), durante la quale l’uso di graduali misure di dissuasione da parte di membri del nucleo militare di protezione (NMP) della Marina Militare italiana a bordo della petroliera Aframax Enrica Lexie contro un’imbarcazione da pesca con a bordo 5 persone armate con evidenti intenzioni di attacco è stato collegato alla morte di due pescatori indiani a bordo di un peschereccio.»
Significa che, dopo un anno e mezzo, chiunque volesse provare a farsi un’idea sulla vicenda collegandosi a quella che – volenti o nolenti – è oggi la Mecca del sapere prêt à porter, si troverebbe davanti un rifacimento imbellettato della “narrazione tossica”, definizione che il collettivo di scrittori Wu Ming ha affibbiato alla triste performance dell’informazione italiana nel merito della vicenda.
Il dato è allarmante poiché a portata di click, spostandosi nella sezione inglese dell’enciclopedia online, la stessa voce per anglofoni racconta tutta un’altra storia. A partire dalle cinque persone armate con evidenti intenzioni di attacco, che nella versione inglese – come nel resto dell’informazione mondiale – non esistono.
Dal mese di febbraio dell’anno scorso l’Italia ha seguito il dipanarsi della vicenda di Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, i due fucilieri del battaglione San Marco, partendo dall’intima e coriacea convinzione che non può essere possibile, i nostri militari sono innocenti, l’India è un paese canaglia che non rispetta il diritto internazionale, siamo invischiati in un complotto internazionale con l’obiettivo di screditarci come nazione.
La sindrome da accerchiamento del pulcino Calimero, che affligge la nostra Italia in perenne stato pre-adolescenziale, ha permesso, a poche settimane dalla morte di due pescatori indiani innocenti, Ajesh Binki e Valentine Jelastine, di compiere il ribaltamento dei ruoli che come Stato ci è più consono: da nazione presunta carnefice – colposa, con ogni probabilità – l’Italia da un anno e mezzo si racconta vittima delle angherie indiane, esaltando l’eroismo dei due Leoni del San Marco “trattenuti ingiustamente nelle galere indiane”.
Lo ha fatto, e sta continuando a farlo, con una trama di mistificazioni e falsità tessuta con pazienza certosina da un manipolo di giornalisti di destra, tra i quali svettano Gian Micalessin e Fausto Biloslavo de Il Giornale assieme a Gianandrea Gaiani, all’epoca collaboratore del Sole 24 Ore.
Nel saggio I due marò. Tutto quello che non vi hanno detto, edizioni Alegre, ho provato a ricostruire la sequenza di panzane e manipolazioni che la stampa di destra ha sciorinato per mesi, convincendo i propri lettori di una verità inesistente ma assolutamente di comodo, riutilizzabile come manganello politico per colpire il governo Monti.
L’esaltazione acritica delle forze dell’ordine e dei militari, immacolati ed innocenti per definizione, nel caso dei due marò ha trovato facile sponda nel rigurgito fascistoide che contraddistingue una cospicua minoranza del nostro paese.
La tesi, facendo una media ragionata delle conversazioni da bar, è pressapoco questa: i marò erano in missione antipirateria con mandato Onu (una missione Onu su petroliere civili?!), potranno anche aver sbagliato, ma erano in buona fede ed in acque internazionali, l’India si sta accanendo contro di noi perché è una potenza economica, l’Italia subisce perché c’è la crisi e vende l’onor patrio per contratti commerciali come Finmeccanica; quegli straccioni degli indiani vogliono solo spillarci soldi.
L’epilogo della vicenda non può non comprendere il ristabilimento dell’ordine naturale delle cose: far valere il diritto internazionale, riprendersi i marò, riprendersi l’orgoglio di essere italiani, far vedere all’India di che pasta siamo fatti, tornare a farsi rispettare all’estero come quando c’era Lui (sostituire con Mussolini o Berlusconi, a piacere).
Ma se l’acquisto di quotidiani come Il Giornale rappresenta già di per sé la volontà di leggere l’Italia e il mondo attraverso un prisma grottescamente deformante, la latitanza dei “giornaloni” nell’offrire all’opinione pubblica una lettura alternativa dei fatti indiani ha fatto sì che il retroterra culturale padre di tesi nazionaliste a priori dilagasse senza controllo, amplificato dall’azione purificatrice dei social network, che hanno il merito di unire la divulgazione di massa all’abbassamento della soglia del sospetto; l’assioma “se lo dice Internet è vero” all’ennesima potenza.
Le tesi fascio-complottiste travasate nella Rete, che ingloba e metabolizza ogni contenuto separandolo dal proprio pedigree, hanno permesso che una farsesca analisi tecnica redatta da un ingegnere romano, Luigi Di Stefano, diventasse il Vangelo dell’innocentismo pro marò, sbandierata in faccia a chiunque si fosse permesso di avanzare dubbi sulle tesi tranchant dell’ingegnere “super partes”.
Citato da diversi quotidiani e magazine italiani, accolto anche in parlamento ad esporre la sua tesi, Di Stefano è passato da un meritato anonimato ad un’autorevolezza scientifica incomprensibile, considerando che al blogger Mazzetta sono bastati pochi minuti di ricerca online per scoprire che la laurea che Di Stefano millantava era stata acquistata in un diplomificio dal nome americano ma con sede in Liberia, e che l’ingegnere super partes era invece un dirigente nazionale di Casapound Italia.
Dettagli che il giornalismo italiano ha ignorato – chi per pigrizia, chi per furbizia – emersi solo grazie alla contro-inchiesta (qui e qui) nata dal blog dei Wu Ming, Giap: un lavoro di giornalismo e ricerca “dal basso” – tra virgolette, perché dipende da dove si guarda – alla base della compilazione del saggio pubblicato con Alegre.
La complessità della vicenda avrebbe dovuto imporre, in un giornalismo sano, la necessità di approfondire temi difficili ed inusuali come l’ordinamento giuridico indiano, la pirateria nel mare arabico – magari sottolineando che, secondo le maggiori agenzie internazionali, i pirati in Kerala non esistono – le peculiarità del diritto indiano, l’applicabilità in casi estremamente eccezionali della pena di morte – e i marò non sono mai stati così eccezionali – interpellando giuristi internazionali, esperti indiani o di India.
Mentre in India, nel mezzo di organi di stampa propagandisti e strumentalizzatori al pari di quelli italiani alcuni quotidiani come The Hindu brillavano per equidistanza ed approfondimento di tesi – anche giuridiche – diametralmente opposte, in Italia per molti mesi ci siamo raccontati addosso.
La narrazione del caso Enrica Lexie è stato un lunghissimo assolo propagandistico, un concerto da solista dove le uniche melodie ammesse dovevano rientrare nell’armonia vittimistica ed italo-centrica. Pare assurdo scriverlo, ma nel confronto italo-indiano l’India, in Italia, non c’è mai stata.
L’Italia in India, purtroppo, c’è stata fin troppo. Il colpo di testa del governo dello scorso marzo, quando unilateralmente l’Italia decideva di venir meno ad impegni solenni presi e firmati davanti alla Corte suprema indiana, ha mostrato qui in India la pochezza della considerazione che una certa parte dell’esecutivo, la fazione del disastroso ex ministro Giulio Terzi, nutriva nei confronti delle istituzioni indiane: come se disattendere accordi stipulati con la massima Corte indiana che impegnavano Roma a riconsegnare i due fucilieri di marina al termine della licenza per il voto fosse tutto sommato un azzardo che l’Italia si poteva concedere, mica stiamo parlando della Supreme Court americana!
L’ennesima provocazione, dopo il ridicolo endorsement di Terzi al gesto d’orgoglio di correre il Gran Premio d’India con monoposto Ferrari addobbate col simbolo della Marina Militare; episodio capace di scatenare la reazione scomposta della Corte suprema, decisa a tenersi l’ambasciatore Mancini finché i due imputati non fossero riconsegnati anche a costo di rischiare la violazione dell’immunità diplomatica internazionale.
Cosa che, fortunatamente, l’India non ha avuto il tempo di fare, ottenendo che i patti bilaterali fossero onorati e i marò – illusi da Terzi e chi per lui, assieme alle proprie famiglie – facessero ritorno a Delhi.
Prima delle ringhiate dei giudici della Corte suprema, la condotta mantenuta dall’India – anche grazie alla professionalità e l’impegno del sottosegretario agli Esteri Staffan De Mistura, interlocutore principale di Delhi in tutta la vicenda – è stata decisamente equilibrata tra la lecita rivendicazione di giurisdizione sul caso e il rispetto dello status di detenzione di Latorre e Girone: dal 15 febbraio 2012 i due marò, contrariamente a quanto scritto in Italia, non hanno mai fatto un giorno di carcere in India, alloggiando in guest-house governative o nell’ala di un istituto carcerario riservata al personale non detenuto; dal 18 maggio 2012 sono passati alla libertà condizionata, spostandosi in una serie di hotel a cinque stelle nei dintorni di Kochi; dal 18 gennaio 2013 risiedono in appartamenti alle dipendenze dell’Ambasciata italiana in India. Senza contare che, episodio inedito in India, da accusati di duplice omicidio Latorre e Girone hanno potuto godere di due permessi per tornare in Italia e passare vacanze natalizie e licenza post-elettorale con le proprie famiglie. Una concessione che forse in Italia non siamo riusciti ad apprezzare appieno nella sua eccezionalità.
I due marò e la diplomazia italiana ora attendono che la Corte speciale formata dalla Corte suprema in accordo col governo vista la singolare complessità giuridica del fatto – avvenuto in una “zona grigia” del diritto internazionale, le acque contigue, e che coinvolge due militari facenti veci di contractor – si pronunci prima di tutto sulla giurisdizione: se sarà indiana, si istruirà il processo in loco; se sarà italiana, le carte saranno trasferite a Roma e si ricomincerà sostanzialmente da capo.
Qualsiasi sarà la conclusione di questa Odissea giudiziaria, l’Italia rimarrà con due nodi irrisolti che, nel 2013, rappresentano un handicap che, come nazione e popolo, dovremmo pretendere di non scontare più.
Un rapporto irrisolto col nostro passato fascista, che in forme vecchie e nuove gode ancora oggi in Italia di uno sdoganamento culturale e sociale senza eguali nell’ambito dei paesi occidentali che hanno vissuto una stagione dittatoriale.
E, giornalisticamente, il problema macroscopico degli Esteri, specie quelli asiatici, un ricettacolo di racconti “strano ma vero”, istantanee di Freak Show, approfondimenti un po’ pruriginosi e un po’ da paccottiglia del mercatino delle pulci: imprescindibili resoconti di assalti di tigri e giaguari nei villaggi, elefanti investiti da treni in corsa e fotogallery da zoo umano dell’esotico – guarda, un santone col pisello di fuori! Guarda, indiani poveri che dormono in stazione! – si alternano ad analisi socio-economiche col ditino alzato affidate a professionisti a quattro ante, come gli armadi: buoni per tutte le stagioni, invitati ideali a cene di gala come a quelle di Francis Veber.
Quelli che l’India è sempre una potenza economica – sempre in tandem con la Cina, “Elefante e Dragone”, che Dio ci perdoni! – mentre qui la classe dirigente è disperata davanti a tassi di crescita ai minimi storici e una rupia in caduta libera; o quelli che gli indiani stuprano le donne di casta bassa perché tanto sono povere, quando in India si stuprava da molto prima che ce ne accorgessimo in Italia, e si stupravano le donne in quanto donne; povere o ricche non è mai stata una discriminante.
Nello sfortunato caso dei due marò, oltre a proiettare nel mondo l’immagine di un’Italia inaffidabile e guascona – in continuità con l’ultimo ventennio – tutti noi abbiamo perso l’occasione di approfondire e conoscere l’Altro; capirlo e, seppur in contrasto, rispettarlo.
Il rispetto – dato e ricevuto – non può che poggiare sulla conoscenza, dotandosi di strumenti utili ad interpretare realtà complesse e globalizzate in continua evoluzione.
Un’informazione pigra che si nutre di stereotipi e banalità acchiappaclic è un fardello che nel 2013 non possiamo più permetterci.