All’indomani dello storico accordo tra Pechino e Vaticano sulle nomine episcopali, non si placano le polemiche sull’opacità dei contenuti, motivo di apprensione per buona parte della comunità cattolica. Nel pomeriggio di sabato si è svolta a Pechino una riunione tra il monsignor Antoine Camilleri, sotto-segretario per i Rapporti della Santa Sede con gli Stati, e Wang Chao, viceministro degli Affari Esteri della Repubblica Popolare Cinese, rispettivamente Capi delle Delegazioni vaticana e cinese. L’incontro si è concluso con una vaga intesa sulla scelta dei vescovi cinesi, fino a oggi principale punto di frizione per le relazioni tra il governo comunista e le autorità vaticane, che dagli anni ’50 esercitano il proprio controllo su due Chiese distinte più o meno numericamente equivalenti: quella “patriottica“, riconosciuta da Pechino (con i propri vescovi), e quella sotterranea, vicina al Vaticano e costretta a operare in clandestinità per sfuggire alla repressione del governo, ostile a qualsiasi forma di condivisione del potere.
Secondo Vatican Insider, l’accordo – di cui non è stato pubblicato il testo – viene definito “provvisorio” “perché contempla un tempo di verifica – presumibilmente, almeno un paio d’anni – per sperimentarne sul campo il funzionamento e gli effetti, così da modificarne e migliorarne la codificazione testuale”. Trattasi di “accordo non politico ma pastorale”, precisa la Santa Sede, smentendo tra le righe un’imminente rottura dei rapporti diplomatici con Taiwan (istituiti nel 1951 in seguito al divorzio dalla Cina continentale comunista), ma senza fornire i dettagli procedurali per l’effettuazione delle nomine.
Stando alle indiscrezioni trapelate sulla stampa internazionale nel corso delle negoziazioni, i vescovi verranno scelti per elezione da parte dei rappresentanti cattolici della diocesi (i sacerdoti, più i rappresentanti delle suore e dei laici) e approvati dalle autorità politiche cinesi, prima di essere sottoposti alla valutazione della Santa Sede per l’approvazione decisiva. Ma del potere di veto papale non sembra più esserci traccia. Intervistato dal New York Times nel weekend, l’arcivescovo Claudio Maria Celli, direttamente coinvolto nei negoziati, si è limitato ad assicurare “un intervento del Santo Padre” nelle nomine, schivando la richiesta di un chiarimento sull’entità dei poteri lasciati al capo della Chiesa cattolica.
Ugualmente abbottonata la reazione cinese, sintetizzata in uno scarno comunicato del ministero degli Esteri in cui si fa menzione di un “accordo temporaneo” mirato a facilitare il “miglioramento delle relazioni bilaterali.” Nessuno indizio in più sulla stampa statale spesso trainata dalle affermazioni incendiarie del Global Times. Il quotidiano bulldozer della politica estera cinese si è limitato a riportare il commento conciliatorio di Marcelo Sanchez Sorondo, cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze, sulla marginalità dell’opposizione schierata da parte della comunità cattolica, che ha nel cardinale Joseph Zen, ex arcivescovo di Hong Kong, il suo più loquace portavoce.
A preoccupare i detrattori sono soprattutto le misteriose premesse alla base della firma, che comprendono il riconoscimento da parte della Santa Sede di sette vescovi nominati da Pechino e precedentemente scomunicati dalla Chiesa di Roma. L’intesa prevedrebbe inoltre la sostituzione degli attuali rappresentanti “sotterranei” delle diocesi di Shantou e Mindong con due vescovi prescelti dal governo cinese. Il tutto mentre invece rimane incerto il futuro dei 36 vescovi ordinati con mandato papale e fino a oggi disconosciuti dal governo cinese.
A stretto giro dalla firma dell’accordo, la Chiesa cattolica cinese ufficiale – rappresentata dall’Associazione patriottica cattolica cinese (CPCA) e dalla Conferenza episcopale della Chiesa cattolica in Cina (BCCCC) – ha riaffermato il proprio sostegno al Partito comunista, promettendo di gestire le attività religiose “in maniera indipendente, attraverso un percorso di sinizzazione che si adatti a una società socialista.” Un messaggio che difficilmente aiuterà a dissipare le preoccupazioni innescate dalle ripetute violazioni della libertà religiosa sotto l’amministrazione Xi Jinping, responsabile di una recente stretta su tutte le comunità religiose presenti oltre la Grande Muraglia nel segno di un processo di indigenizzazione delle fedi.
È dunque l’inizio del totale assoggettamento della Chiesa alle autorità comuniste? Non per Francesco Sisci, sinologo che per Asia Times intervistò Bergoglio nel 2016. Secondo quanto riferisce l’esperto all’agenzia SIR, con l’accordo per la prima volta “Pechino ha ammesso l’ambito religioso del Papa in Cina“, una concessione che in epoca imperiale i missionari gesuiti non ottennero mai.
[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.