Le autorità di Pechino hanno finalmente deciso di intervenire sulla detenzione illegale dei petizionisti, coloro che arrivano nella capitale per lamentare abusi e pratiche scorrette subiti nei loro paesi d’orgigine, nelle cosiddette black jail. La notizia è del Beijing News.
La Cina è un mix di passato e futuro: si passa dalla Shanghai Blade Runner ai villaggi rurali con strade sterrate e povertà diffusa. Ci sono ancora pratiche antiche, pur essendo un paese lanciato verso il futuro.
Una di queste è la consuetudine delle petizioni: dalle campagne ancora oggi giungono a Pechino molte persone con reclami nei confronti delle autorità locali. Affinché questi reclami siano ascoltati, i cittadini cinesi portano le “petizioni” a Pechino, perché vengano ascoltati dai funzionari del governo centrale.
Purtroppo per loro, però, nella maggioranza dei casi i petizionisti vengono bloccati e rispediti indietro già nel momento in cui mettono per terra il piede in stazione.
Chi riesce a superare i primi controlli spesso non ha destino migliore: finisce nelle “black jail”, prigioni illegali, case di Pechino adibite a centri di sorveglianza, gestiti nella maggior parte dei casi da imprese di sicurezza che lavorano con le autorità.
Secondo le organizzazioni per i diritti umani ci sarebbero almeno 2600 “prigioni nere”.
Il Beijing News ha riportato una novità in questa pratica: la polizia pechinese sarebbe intenta in una campagna contro queste imprese di sicurezza, per dare un “avvertimento” a questo tipo di business. Per sei mesi è annunciata tolleranza zero contro le detenzioni illegali nelle “black jail”.
Si tratta di una campagna che durerà sei mesi, con l’intento di “frenare imprese non registrate che impiegano guardie senza licenza per attività illegali, tra cui le attività di aiuto per gli uffici del governo provinciale della capitale affinché tengano i petizionisti nelle “carceri nere”.
La pratica delle petizioni consiste in una tradizione imperiale, che permette ai cittadini cinesi di esporre delle rimostranze, spesso contro le autorità locali, direttamente al governo centrale.
Per molti petizionisti però, l’avventura nella capitale si conclude con una detenzione illegale in quelle che vengono definite “black jail”.
Un ufficiale di polizia, citato dal Beijing News, ha detto che “la campagna avrà tolleranza zero per queste pratiche illegali: sarà un avvertimento per l’industria che esiste una linea che non può essere più violata”.
Molte di queste “black jail” – o centri di detenzione illegali – sono sorte negli ultimi anni per punire i richiedenti che giungono nella capitale per ottenere dei risarcimenti.
“Le loro lamentele di solito hanno a che fare con requisizioni illegali di terre, corruzione e abuso di potere da parte di funzionari locali: si tratta di lamentele – ha scritto la stampa cinese – che funzionari locali considerano un imbarazzo che potrebbe compromettere la loro carriera”.
I petizionisti nel corso degli ultimi anni sono stati ascoltati da molti media che hanno raccolto le loro storie: molti di loro hanno affermato di essere stati rapiti, maltrattati, di aver subito abusi fisici e psicologici, di essere stati tenuti in isolamento per molti giorni, privati di cibo, sonno e cure mediche, finendo per essere “rimpatriati” a forza nelle proprie città di origine”.
Il Beijing Morning Post ha citato un vice capo del Public Security Bureau di Pechino, Zhang Bing, che ha confermato la chiusura di una “prigione nera” a Changping, alla periferia di Pechino, cui sarebbe seguito l’arresto di varie guardie.
Secondo le fonti di polizia, la compagnia che gestiva la prigione sarebbe stata pagata da uffici governativi regionali di Pechino per detenere illegalmente petizionisti “in nome del mantenimento della stabilità”.
Alcuni osservatori hanno dichiarato che il governo centrale avrebbe trascurato il problema troppo a lungo. Il professore Ai Xiaoming, “un sostenitore esplicito dell’equità sociale”, ha detto che “il giro di vite sulle imprese di sicurezza responsabili per la detenzione illegale è un primo passo necessario per proteggere i diritti dei petizionisti”.
Ma Du Mingrong, invece, petizionista di Jilin che ha tentato di cercare giustizia a Pechino per più di un decennio, si è detta scettica circa l’efficacia di tale campagna: “ogni giorno vedo ancora un sacco di auto senza targhe parcheggiate fuori dalla corte. I governi locali stanno assumendo criminali per arrestare arbitrariamente persone" ha affermato, dopo aver raccontato di essere stata picchiata nel 2007 da alcuni teppisti, finendo poi per essere mandata a rieducarsi nel 2009.