I diari di Bollophur – Sadhu Mela, l’invasione dei santoni

In by Simone

Siamo ufficialmente abitanti del villaggio di Bollophur, periferia di Santiniketan, periferia di Bolpur, a tre ore da Calcutta, Bengala Occidentale. Questi sono i nostri diari.
Ne aspettavamo 120, ne sono arrivati più o meno 70.
E’ l’invasione dei santoni a Theater House in occasione del Sadhu Mela, ritrovo tradizionale di rinuncianti di tutto il Bengala Occidentale per commemorare la morte di Jerzy Grotowski, mentore de Il Regista.
Direte voi, ma che c’entrano i santoni bengalesi con la morte di un regista teatrale polacco?
Avete indovinato, non c’entrano una mazza.
Dicono gli abbiano spiegato che era un “sadhu polacco”. Era vecchio, aveva la barba, ed è andata bene così.
Il Regista da anni li ospita in uno spiazzo all’interno del suo terreno. Quello spiazzo si trova a 20 metri da casa nostra.

Nei giorni precedenti fervevano i preparativi, con la manovalanza tribale locale che si ingegnava a costruire un tendone dormitorio, un tendone cucina e un tendone palco teatrale per allietare i sadhu nei due giorni di Sadhu Mela, prima che la gran parte dei partecipanti – noi compresi – si trasferisca ad un altro ritrovo di musica Baul a 30 km da qui, il celebre Kenduli Mela.

Il primo contatto con la massa di ricercatori dello spirito è avvenuto due giorni fa, quando Jaydev Pagla è venuto a bussare alla nostra porta. Quella del retro, che davanti non ce l’abbiamo.

Jaydev Pagla è una vecchia conoscenza: qualche settimana fa è capitato da queste parti e, dopo averci mostrato con orgoglio la medaglietta di plastica consegnata a tutti i sadhu presenti ad un mega ritrovo in Bangladesh, ci ha chiesto in prestito una gamcha, una specie di asciugamano, per andarsi a lavare nel pukur (che, ricordiamo, è il laghetto tipico di questa zona dell’India, davanti ad ogni centro abitato in campagna).

Poi la metto di là a stendere e ve la riporto!

Quella gamcha, crediamo, sta ancora nella sua borsa.

Ad ogni modo il problema del sadhu era il cellulare. Si era scaricata la batteria e doveva assolutamente ricaricarlo. Richiesta accettata di buon cuore.

“Ma la gamcha?”
“Ah si, ce l’ho io, domani ve la riporto”.

Dopo un paio d’ore ritorna a bussare, accende il telefono e che fa? Chiama qualcuno? Aspetta una chiamata? No, fa partire una bella canzone sdolcinatissima tratta da un film bengali. Ci guarda soddisfatto: “Aaah, ora la musica funziona. Molto bene”.
Nella foto qui sotto, è il primo a sinistra. Nel caso lo incontriate, non prestategli nulla!

Ci sono quelli vestiti di nero devoti a shiva e vivono nei campi crematori, con la tenda a pochi metri dai cadaveri della zona; poi ci sono quelli rossi, tantrici della “madre”. Tara, Kali, insomma quella con tante mani e la collana di teschi.
Infine quelli che vestono un panno bianco lavato nella terra rossa. Loro dovrebbero essere i rinuncianti veri, quelli che abbandonano la vita comune, si spogliano di tutti i loro averi e intraprendono un rigido cammino spirituale.
Nell’accampamento si vocifera però che molti abbiano in realtà un ashram dove vivono assieme a zie, cugine, sorelle, fratelli, nipoti ecc.

Sadhu comunque non si nasce: prima si studia, poi si fa una famiglia e a un certo punto si molla tutto e si gira di raduno in raduno, di ashram in ashram, di tempio in tempio, a lodare il dio di riferimento, pregare, cantare e vivere d’offerte.

Gli ospiti di Theater House sono rinuncianti sì, ma fino a un certo punto.
Ieri sera, mentre assistevamo tutti assieme ad uno spettacolo di danza tradizionale, una santona sdentata e con una lunga chioma di dreadlocks fasciati a mo’ di turbante (ci sono anche le donne eh!) mi si avvicina per lamentarsi.

“La luce non funziona!”
“Cosa?”
“La luce non funziona, non funziona!”
“Io non sono un tecnico! Che devo fare?”

Mi porta dentro al dormitorio, dove il neon attaccato ad un palo di bambù lampeggia tipo luce stroboscopica.
In realtà, tutto l’accampamento, di notte, somiglia ad un technorave, con tutti questi santoni seduti sotto luci al neon bianchissime o verdi. Musica, tamburi, droga…c’è tutto il repertorio per mandare fuori di testa un esercito di punkabbestia.

Considerando che l’allacciamento alla corrente è stato fatto collegando due fili ad una delle prese in camera nostra, il tutto fissato con un po’ di spago, la sopravvivenza a questi due giorni è già da considerarsi un miracolo. Meglio non essere troppo pretenziosi. Meglio non sfidare la sorte.

Un detto dei santoni recita: “Kom khai, kom gumai”, ovvero “mangiare poco, dormire poco”.
La seconda parte della regola viene estesa anche a noi vicini.
Alle cinque di mattina si alzano tutti e non so bene cosa fanno, ma lo fanno rumorosamente.
Ipotizzo cantino dei mantra, accompagnandosi con piattini e sonagli come alla Corrida di Corrado.
Ci danno dentro fino a poco dopo l’alba, poi ritorna un surrogato di silenzio rotto dallo sferragliare di pentole ed asce a spaccare legna. Preparano la colazione.

C’è da dire che però, caricamento del cellulare a parte, tutti i santoni appaiono completamente autosufficienti.
La mattina le donne lavano i panni nel pukur davanti casa, dopo si fa la fila per "la doccia", sempre nel laghetto. Il cibo viene cucinato e servito da dei tribali locali assunti per l’occasione. Si mangia con le mani e i piatti sono fatti di foglie di banana. Poi si butta tutto nella foresta. Cani randagi, corvi e maiali selvatici si occuperanno del riciclaggio.

La massa umana di rinuncianti ha attirato gli sciacalli del business dei villaggi vicini.
Da un paio di giorni girano qui intorno venditori ambulanti di yoghurt e di fuchka, delle specie di pallette di patate speziate intinte in succo di tamarindo.
Grazie al sistematico raddoppiamento dei prezzi quando vendono agli occidentali – oltre a noi, una manciata che stanno seguendo un workshop di teatro – stanno facendo una fortuna.

L’evento attira purtroppo anche il popolo dei picnic, che in questa stagione infesta ed inquina la campagna di Santiniketan. Mangiano roba cucinata a casa e buttano tutta la plastica dove gli pare, scroccano acqua potabile, secchi e quant’altro serva loro in quel momento ma, soprattutto, ascoltano tutto il santo giorno terribile musica disco-bollywood, sparata a mille da potentissimi stereo montati sui loro maledetti furgoncini. Sono gli indiani moderni delle città. Girano coi Ray Ban pure quando piove e si atteggiano a movie star.
Nemmeno qui a Bollophur, dopo il capolinea del progresso, riusciamo a starne alla larga.

Ignari del concetto di privacy o intimità, non appena arrivano davanti a casa nostra spesso si imbucano e iniziano a ficcare il naso dappertutto, complimentandosi con Carola per il suo bengali perfetto.
Chiedono se possono fare delle foto a Carola o a me mentre lavo i piatti, mentre pochi metri più in là, all’accampamento, Sadhu Biswajit (ne avevamo già parlato qui) si sdraiava a pancia nuda su una trentina di coltelli fissati ad un’asse di legno.
Ma evidentemente l’attrazione vera, in un contesto del genere, siamo noi.

Tra tutti, il mio preferito è Kalojira (che in bengali significa “seme di cumino nero”), un sadhu di quelli neri del crematorio.
L’abbiamo incrociato a cena l’altroieri e lui ci ha invitato ad andarlo a trovare nella sua tenda, a un centinaio di metri dall’accampamento comune. “Se sto da solo sto bene – ci ha spiegato – là con tutti gli altri c’è troppo casino. Cantano, urlano, fumano…”.

Oggi Kalojira si è intrattenuto una mezzoretta a casa nostra, spiegandoci che lui, shivaita convinto, considera la divinità Krisna un badmash, delinquente. “Da piccolo Krisna rubava il burro nel suo villaggio e faceva l’amore con tutte le pastorelle! Era un delinquente!

Il Sadhu Mela è ormai agli sgoccioli, tra poche ore la massa si sposterà al Kenduli Mela.
Assieme alla massa, anche la nostra gamcha, che ancora non è tornata a casa.
Nonostante l’aura di santità che avvolge i rinuncianti, sembra non godano di ottima reputazione tra la popolazione locale.
C’è l’ha confidato l’altra mattina il nostro lattaio, che ogni giorno verso le 8 ci porta a spalla il latte appena munto dalle sue mucche.
Qui in bengala abbiamo un proverbio sui sadhu: di giorno cantano e lodano gli dei, di notte vanno di campo in campo a rubarsi le melanzane”.

Le melanzane ci sono tutte, ma la nostra gamcha alla fine se la sono grattata.