Siamo ufficialmente abitanti del villaggio di Bollophur, periferia di Santiniketan, periferia di Bolpur, a tre ore da Calcutta, Bengala Occidentale. Questi sono i nostri diari.
Una decina di giorni fa ho seguito Carola in una delle sue spedizioni per racimolare materiale utile per il suo dottorato. La meta era il tempio di Kamakhya, vicino a Guwahati, capitale dell’Assam.
L’occasione era il ciclo mestruale della dea Shakti, e qui occorre una spiegazione a braccio.
Shakti, da quel poco che ho capito – abbiate pazienza, per me le divinità indiane sono "quella con tante mani", "quello blu", "quello che ruba il miele"… – è la divinità femminile principale nell’induismo e anche – suggerisce Carola – "la forza creatrice del mondo".
Un giorno Shakti ha sbroccato e si è messa a ballare come una forsennata, iniziando a distruggere l’universo. Allora interviene Vishnu ("quello blu") e per salvare tutti la distrugge colpendola con un’arma rotante. I 51 pezzi di Shakti atterrano in diverse parti dell’India (mani, piedi, clavicole, spalle, naso, anca….tutto) e in corrispondenza vengono costruiti dei templi dedicati alla dea.
Sotto al tempio Kamakhya c’è la vagina e, come ogni vagina che si rispetti, ogni tanto ha il ciclo. Il ciclo divino, per comodità, viene una volta l’anno, quando le acque del fiumiciattolo sotto il tempio si colorano di rosso. Lascia perdere che succede proprio nel periodo monsonico, quando le piogge portano un sacco di detriti argillosi dai monti sopra l’Assam…è il ciclo mestruale della dea! Non si discute.
Quindi ogni anno si radunano al tempio i fedeli di tutte le varie forme di Shakti, ovvero tutte le dee indiane (tra cui Kali, "quella con tante mani") a fare la coda per andare a vedere la statua della dea prima che inizi il ciclo. Il tempio (ma guarda un po’!), i quattro giorni del ciclo mestruale chiude. I devoti lasciano dei pezzi di stoffa davanti alla statua, pezzi che poi saranno loro riconsegnati magicamente intrisi del ciclo mestruale di Shakti. Nell’attesa ci si accampa tutti sulla collina dove sorge il tempio, a prendersi le secchiate d’acqua monsonica, cantare, fumare cylum e urlare a squarciagola lodi a Ma, la dea madre, come viene chiamata.
La presenza dei santoni è imponente e variegata: ci sono i vaishnava coi segni di pasta di sandalo sulla fronte, gli shakta vestiti di rosso, i tantrici gialli e quelli più inquietanti, vestiti di nero, che sembra facciano dei riti nel campo crematorio meditando seduti sopra i cadaveri per "trascendere la dualità di vita e morte".
In più ci sono decine di migliaia di fedeli meno impegnati: quelli più poveri, che raggiungono il tempio da tutto il nord dell’India in condizioni davvero da bestiame – visti scannarsi per occupare un posto vicino al finestrino nel vagone merci di un treno a lunga percorrenza – e quelli invece benestanti, della classe media bengalese, per i quali la devozione alla dea significa – soprattutto – partecipare a queste adunate dove è permesso quasi tutto ciò che la società indiana mainstream proibisce. Si sbronzano e fumano erba, in sostanza. Ovviamente, sono tutti maschi.
Senza entrare nei dettagli del nostro soggiorno, lungo tutto il viaggio abbiamo avuto prova concreta della bontà gratuità dei devoti della Madre: gente che si è rannicchiata in una brandina sola sul treno per permetterci di sdraiarci sull’altra che avevano prenotato – la nostra prenotazione non era stata confermata; amici che ci hanno ospitato nella camera presa in affitto ad una cifra spropositata, dormendo alla fine in cinque in 3 mq; un gruppo di fedeli che l’ultima sera ci ha ceduto in toto la loro camera, che tanto a loro non serviva perchè sarebbero stati in piedi tutta notte a bere rum e fumare cylum. Tutti disponibilissimi, tutti sorridenti, mai un sentore di pericolo, cosa credo unica in un raduno di cinquecentomila persone per la maggior parte sprovviste sia di un giaciglio accettabile (la maggioranza ha dormito per strada, accampata sotto teloni di plastica portati da casa per difendersi dalle intemperie) sia dei minimi servizi igienici (tutti gli obblighi fisiologici venivano espletati all’aria aperta, tanto poi piove e pulisce tutto).
L’unico infame – come sbagliarsi – è stato un alto ufficiale della polizia che voleva invitarci a bere una bottiglia di whiskey (che avremmo dovuto pagare noi) nella torretta d’osservazione della centrale. Al nostro rifiuto, ha ripiegato chiedendoci 50 rupie per ripagare alcuni sottoufficiali che gli avevano portato l’alcol a domicilio. 50 rupie mai più riviste.
Per motivi di lavoro siamo dovuti tornare a casa proprio il giorno prima della riapertura del tempio, l’ultimo giorno del ciclo. Tutti ci hanno messo in guardia da questa scelta scellerata. Andarsene prima di vedere la dea demestruata, dicevano i vari santoni, porta una sfiga terribile. Seh vabbé, siete furbi voi a stare qui a cagare in mezzo ai cespugli sotto la pioggia per cinque giorni, pensavo io.
Ritornati a Santiniketan lunedì, in una settimana è successo quanto segue: il modem in riparazione, per qualche problema che va oltre la mia comprensione, non è arrivato, ciò significa tornare a lavorare a velocità internet da anni Novanta (manca solo il cri cri cri del modem ad impulsi); il box della televisione si è bruciato il giorno prima di Italia-Spagna (sostituito in tempo record, ma forse era meglio di no, a posteriori); bucata in piena notte la ruota posteriore del motorino; quelli dell’ufficio visti di Delhi si son ufficialmente persi i nostri documenti per il rinnovo; sospeso per una notte il rifornimento di acqua (doccia coi secchi); la compagnia telefonica locale ci dice che c’è un problema coi nostri cavi della connessione internet, non sanno quale, manderanno domani una "squadra" a monitorare palmo a palmo i cavi che collegano la nostra casa alla centralina principale (distanza approssimativa, un chilometro).
E’ la maledizione della dea Shakti. Non sappiamo come uscirne.
Chiediamo umilmente perdono.