Siamo ufficialmente abitanti del villaggio di Bollophur, periferia di Santiniketan, periferia di Bolpur, a tre ore da Calcutta, Bengala Occidentale. Questi sono i nostri diari.
Piccoli imprevisti organizzativi al Kolkata Film Festival, kermesse impreziosita dalla presenza di testimonial del calibro di Amitabh "Big B" Bachchan e al "brand ambassador" del Bengala occidentale Shah Rukh Khan (nato a Delhi, ma proprietario dei Kolkata Knight Riders, la squadra di cricket di Calcutta. Il che basta e avanza).
Dopo esserci accreditati come giornalisti al media center ed aver conosciuto tutte le più alte cariche dell’organizzazione del festival, compreso il direttore dalla stretta di mano viscida e i suoi "voi non siete ospiti del Festival, siete parte della nostra famiglia", proviamo ad andare a vedere una delle proiezioni. Arrivati al metal detector – che presumo non sia nemmeno collegato alla corrente elettrica, come del resto non succede nemmeno alla stazione di Howrah – ci imbattiamo nel problema logistico.
"Avete macchine fotografiche o laptop?"
"Solo laptop"
"Non potete entrare"
"Ma come non possiamo entrare? Siamo giornalisti e portiamo dietro il laptop per lavoro. Nessuno ci aveva detto niente"
"Mi spiace, sir, non potete entrare"
"D’accordo, li lasciamo qui a voi e li riprendiamo dopo"
"Non è possibile sir, non possiamo tenerli qui"
"Allora c’è un deposito? Una cassetta di sicurezza dove possiamo lasciarli?"
"No sir, non c’è"
"E allora che dobbiamo fare?"
"Sedetevi un attimo, sir, aspettate che vado a chiedere al superiore"
Dopo cinque minuti la guardia torna e "Mi spiace sir, non potete entrare. Andate a chiedere al media center".
Andiamo allora al media center, una stanza piena di carte e fotocopie di documenti dove un paio di babu con gli occhiali si occupano della distribuzione dei pass. Esponiamo il nostro problema ma nulla da fare:
"La sicurezza non è un nostro problema, dovete chiedere alla polizia"
"Ma loro ci hanno appena mandato qui da voi"
"Non so cosa dire sir, non possiamo aiutarvi"
"Bene, allora cosa facciamo noi?"
"Non so, sir"
Torniamo al metal detector, dove nel frattempo si è materializzato un "superiore" che ci consiglia di andare a parlare direttamente col direttore del Festival, chiedendo "un permesso esplicito scritto per portare i laptop all’interno delle sale". Ennesimo esempio della pornografia da burocrazia, l’ossessione feticista dei timbri ufficiali e dei documenti che contraddistingue tutta la pubblica amministrazione indiana.
Saliamo nell’ufficio del direttorissimo, circondati da un nugolo di sottoposti o funzionari di vario tipo estasiati dalla pronuncia bangla perfetta di Carola – "Parli bangla meglio di noi, madam!" "Sì ma i laptop dove li mettiamo?" "Non so, madam" – e alla fine veniamo accolti.
"Eccoci qui per il primo problema della giornata, direttore"
"Ma voi non siete ospiti, siete parte della famiglia del Festival"
"Benissimo, ma non ci fanno entrare nelle sale col laptop, come facciamo?"
"Siete parte della famiglia del Festival, credevo foste informati delle regole del Festival"
"Questa cosa del laptop non c’è scritta da nessuna parte. Esiste un deposito o una cassetta di sicurezza dove metterli?"
"No, non esiste"
Il direttorissimo chiama allora un tale, che avevamo visto poco prima aggirarsi per il centro di comando del Festival con un vassosio di chai bollenti, e gli dice di accompagnarci nello studio a fianco, di farci mettere lì i computer e di darci la chiave. Il cameriere annuisce, si gira verso di noi – che lo aspettiamo fuori dalla porta dello studio – e fa finta di non aver sentito nulla, continuando ad indaffararsi con la sua mansione di porta-chai. Gli facciamo notare l’impellenza della questione e lui ci porta in un ufficio abbandonato, dove passano decine di persone incuranti della nostra presenza, come fossimo fantasmi, invisibili.
Chiediamo a qualcuno se ci siano le chiavi di quell’ufficio e in risposta veniamo portati da un altro giovane responsabile sorridente. Spieghiamo anche a lui il nostro problema, lui sorride e in bangla urla al cameriere qualcosa tipo "Ma dove cazzo li metto sti computer nell’ufficio? Chi cazzo t’ha detto di mandarmeli qui? "Il direttore" "Bene, allora mo vado dal direttore".
Seguiamo il giovane imbufalito fino all’ufficio del direttore, che nel frattempo si era spostato in quello a fianco per fare uno spuntino, lo vediamo entrare, discutere ed uscire diretto di corsa verso il suo ufficio.
E qui succede il capolavoro, la cifra massima dell’efficienza del Bengala occidentale, l’extrema ratio di fronte ad ogni problema apparentemente insormontabile.
Si fa finta di nulla.
Direttore: sparito. Cameriere: sparito. Giovane responsabile: sparito. Superiore: sparito.
Io e Carola rimaniamo attoniti in mezzo al corridoio per alcuni minuti, fin troppo abituati alla tecnica bengalese del "se faccio finta che non esista un problema, il problema scompare". Decidiamo di allinearci agli usi locali.
Avvolgiamo entrambi i computer nei nostri scialli – perché sì, andiamo in giro con gli scialli – e li ficchiamo nelle borse. Al metal detector del secondo spettacolo – un terribile film tamil sul tema della perdita di un cavallo di legno da parte di un villaggio dell’India meridionale – apriamo le borse.
"Avete macchine fotografiche o laptop?"
"Nono, solo uno scialle. Siamo giornalisti"
"Benissimo, potete andare, sir"
E siamo andati.