Mentre i vecchi cinema della Capitale lasciano il posto a sale Bingo e supermercati, al Quadraro il glorioso cinema Folgore è diventato il centro nevralgico della comunità coreana locale. La sua storia, se da una parte si inserisce nel piano di riqualificazione del quartiere, dall’altra riporta alla mente un passato doloroso che ha visto il rione fare da sfondo alla resistenza antifascista e ai rastrellamenti nazisti del ’44.
«Pora Teresa: capirai, co’ quella giornata ch’aveva passato, n’aveva fatti pochi d’impicci! Scese tutta sonno, coll’ossa rotte: imboccò il vicolo, che ci si vedevano dietro tutte le lucette della ferrovia, e più dietro quelle del Quadraro, e più dietro quelle di Cecafumo, e più dietro quelle di Cinecittà: ma tutte sbattute, perse, perché era notte alta […]. Passò sotto l’archi, con tutti i fregi e le fregne di pietra del tempo dei Papi, andò oltre il funtanone, addossato a quell’archi come un altare, e imboccò il Mandrione, per una pista di fanga, incassata sotto la muraglia dell’Acquedotto Felice, alto che non si vedeva il cielo, da una parte, e dall’altra i prati coperti dallo sterco dei cavalli degli zingari, e della loro zella, affumicata, perché più sotto, tra le fratte sventrate, passava il treno. Sotto la muraglia, una addosso all’altra, c’erano le baracche, come tanti gallinari, con le finestrine e le porticelle di legno fracico, e i tetti di bandone».
Difficile, in un’assolata domenica della tarda primavera 2016, ritrovare quanto descritto da Pier PaoloPasolini nel suo La Mortaccia. A parte l’intricata matassa di stradine che lo rendono tutt’oggi «uno dei posti migliori in cui perdersi» – scrive il Time e confermo – oggi il Quadraro appare un quartiere popolare ancora in cerca di una propria identità, arroccato all’estremità sud-est di Roma, tanto vicino al Parco degli Acquedotti che nell’esplorarlo si incappa più volte nelle sue vestigia aggredite dalle erbacce e inglobate a Tetris in un tessuto urbano disorganico.
Non potrebbe essere altrimenti, data la sua storia. Se di Quadraro si parlava già nel 1600 nel Catasto Alessandrino (quando il toponimo abbracciava un’area ben più ampia che si estendeva fino ai Castelli Romani), oggi il medesimo termine sta a indicare l’area dove sorge l’insediamento urbano delimitato dalle vie Tuscolana, Casilina e Centocelle. Il lascito di una lottizzazione risalente ai primi del ‘900 strutturata in villini semi-rurali di due o tre piani circondati da un’area verde di qualche migliaia di metri quadrati, che nella concezione autarchica fascista doveva servire da fonte di approvvigionamento di prodotti di ampio consumo per l’Urbe. È a partire dal secondo Dopoguerra, sulla spinta decisiva della cosiddetta «legge Fanfani» approvata «per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per i lavoratori», che venne realizzato quell’intenso e sistematico piano di sviluppo edilizio, che finì col mutare radicalmente la fisionomia e l’assetto del territorio. Fu la volta degli «edifici in linea» di quattro, sei e sette piani, poi quella dei «palazzi a torre» fine anni ’50. Infine la gentrificazione: la signora in nero con la falce che ha spazzato via edifici storici cari ai quadraroli e le chiassose trattorie romane frequentate dalle maestranze della vicina Cinecittà.
«Sta strada era tutta un via vai de persone. Era pieno de negozi, tutti italiani eh! Mo’ là infondo a sinistra ce sta una pasticceria de cinesi. Davanti, la vedi la serranda abbassata? Era l’osteria da Giggetto dove ilGobbo der Quarticciolo nell’anni ’40 fece fuori due tedeschi. Noi ci andavamo a bere la sera. Ce chiamavano ‘i fagottari’ perché ce portavamo da casa la robba da mangiare. A volte ci incontravamo gente dello spettacolo. Sa, ad Aldo Fabrizi je piaceva la cucina romana… Ma che posso darle del tu?!» Il signorMario, età indecifrabile intorno agli 80, è la memoria storica del quartiere. Sempre appostato sull’uscio della porta, da anni abita a via dei Quintili proprio davanti all’ex Folgore, un cinema di terza visione aperto negli anni ’20 al civico 34 e costretto a chiudere con l’incalzare della televisione nel ’79. Poi riutilizzato dal cinematografo Vittorio Storaro come teatro di posa per alcune parti de l’Orlando furioso, riadattato a tipografia, e infine divenuto chiesa evangelica coreana, una decina di anni fa.
«Ci andavamo a vedere i primi film in bianco e nero, Totò, Stanlio e Ollio, Alberto Sordi e i western americani. Il biglietto costava 80 lire e alla cassa si potevano comprare i bruscolini o il mustacciolo a 20 lire». Il Folgore era uno dei due cinema di quartiere insieme al leggendario Cinema Quadraro, alla fine della discesa di via Tuscolana. Leggendario non tanto per le sue proiezioni di qualità: lì vi furono schedate le 2.000 persone rastrellate la mattina del 17 aprile 1944, quando la spedizione punitiva diretta dal maggiore Kappler contro il celeberrimo «nido di vespe» (la resistenza antifascista locale) si concluse con la deportazione in Germania di circa un migliaio di uomini tra i 18 e i 60 anni.
Molti di essi vennero uccisi nei campi di sterminio, altri, fuggiti per unirsi alle formazioni partigiane, caddero in combattimento. Alcuni tuttavia sopravvissero miracolosamente. «Mio fratello aveva quindici anni quando lo portarono in Germania. Poi riuscì a scappare con degli amici. Tornò che era magro così», racconta Mario facendo segno con il mignolo alzato. «Io di anni ne avevo nove. Ancora mi ricordo. Mi fecero mettere le mani incrociate dietro alla nuca e mi puntarono una pistola alla testa».
Di questa storiaccia al Quadraro si ricordano tutti; fu l’episodio più tragico a Roma dopo il rastrellamento del Ghetto del 16 ottobre 1943. Ma mentre la resistenza del «nido di vespe» è ormai sepolta nella memoria dei sopravvissuti e delle loro famiglie, la lotta dal basso continua a vivere nell’impegno per una riqualificazione partecipata del quartiere. Lo scempio delle sale da proiezione riflette l’incuria con cui lo Stato ha pigramente lasciato edifici storici in balia del tempo, si lamentano i quadraroli. Il cinema Quadraro è stato buttato giù negli anni ’60 per fare largo a un orrido palazzone. Il Bristol ha ceduto il posto a un centro commerciale, mentre dal glorioso Imperial entrano ed escono muratori sotto lo sguardo perplesso di due ritratti di Pasolini e Anna Magnani pennellati a tinte vivaci sulla facciata, un assaggio del progetto MURo(Museo di Urban Art di Roma) lanciato nel 2010 dall’artista David «Diavù» Vecchiato. Ma che gli abitanti del posto «osteggiano» – ci spiega un ragazzo – considerandolo uno sperpero di denaro utilizzabile per la realizzazione di opere pubbliche più funzionali (letteralmente: «bastano du’ gocce d’acqua che in strada si forma lammmerda»).
Al cinema Folgore, in fin dei conti, è andata bene. Dopo anni di abbandono, è stato venduto a una chiesa coreana in barba a quanti ne auspicavano una seconda rinascita come ritrovo culturale del rione. Meglio di niente. «Meno male che sono venuti i coreani. So’ carucci e poi, sai, so’ cristiani, mica come quell’altro cattivo», spiega Mario incupito, alludendo alla setta del reverendo Moon, il predicatore sudcoreano noto per il suo poco limpido impero economico e i matrimoni di massa. Orrore!
Del vecchio cinema è rimasta la struttura esterna, un basso caseggiato bianco su tre livelli sormontato da una croce rosso scarlatto. «Benvenuti! Il Signore vi ama!» recita all’ingresso uno striscione bilingue in italiano e coreano. Ospitata inizialmente dalla presbiteriana St. Andrew’s Church of Scotland in via XX Settembre, la comunità protestante coreana era da tempo alla ricerca di una sede propria. Ed è proprio per far posto alla congregazione del reverendo Pyung-Woo Han che l’edificio del Folgore, estremamente degradato nelle strutture edilizie principali, è stato recuperato dall’architetto Livio Sacchi nel 2006 con un budget di «soli» 650mila euro.
Trasportati dall’aroma di spezie e riso cotto al vapore ci intrufoliamo nella hall principale. Lo spettacolo è inaspettatamente dei più profani: davanti ai nostri occhi si consuma «il peccato della carne» in gran stile. Vivaci famigliole riunite attorno a una lunga tavolata celebrano un pasto domenicale degno della tradizione culinaria romana, fatta eccezione per il menù rigorosamente orientale: pollo con riso e qualche intingolo di difficile decifrazione per un naso occidentale, anche se ben addestrato agli aromi asiatici. Il malcelato sbigottimento induce una delle giovani commensali a venirci incontro. È in corso una festa? «No. Qui è sempre così la domenica. Dopo la messa delle 11.00 ci fermiamo a mangiare tutti insieme», spiega in perfetto italiano una ragazza che scopriamo essere l’interprete ufficiale del reverendo Han. Non che il reverendo l’italiano non lo sappia. Ma, dal momento che alle funzioni non prendono parte soltanto i coreani, alla fine si è optato per tenere le cerimonie in doppia lingua per non scontentare la gente del quartiere.
Il nostro arrivo deve averli in qualche modo turbati perché nel giro di pochi minuti sono già tutti in piedi, chi in procinto di andarsene chi pronto per le prove canore. Sì perché, oltre alla lettura delle scritture, l’esibizione corale occupa gran parte della liturgia evangelica. Sulle pareti dell’ingresso campeggia una lunga sfilza di locandine: La Traviata, Cavalleria Rusticana, Così Fan Tutte e ignote opere coreane su cui spiccano le riconoscibili facce di molti dei presenti. Non a caso la maggior parte dei fedeli è composta da cantanti lirici; qualcuno studia al Conservatorio di Santa Cecilia, qualcun altro al Conservatorio di Licinio Refice, in quel di Frosinone. Dei circa cinquanta che sono in tutto, nessuno vive al Quadraro; il pastore si fa ogni giorno avanti e indietro da Porta Pia, mentre parte della comunità risiede ai Castelli romani.
Alcuni di loro sono arrivati soltanto due o tre anni fa dalla Corea e hanno ancora seri problemi a destreggiarsi con l’italiano. Eppure si sono già integrati perfettamente nel contesto locale riuscendo dove cinesi, filippini, bengalesi, tunisini e compagnia bella hanno fallito. Ne è prova – asseriscono i frequentatori della chiesa – la storia d’amore tra una ragazza coreana e un italiano culminata di recente in matrimonio. Nordcoreani ce ne sono? Parrebbe proprio di no. Stando a quanto affermano i ben informati, nella capitale la presenza di cittadini del Regno Eremita – dove l’evangelizzazione è severamente vietata e il cristianesimo tollerato soltanto quando professato in ambigue forme approvate dalle autorità – appare perlopiù limitata a una decina di studenti spediti dal governo di Pyongyang e costantemente monitorati dai funzionari dell’ambasciata; alcuni di loro frequentano la facoltà di architettura presso l’Università La Sapienza, ma difficilmente travalicano gli stretti confini entro cui è circoscritta la loro piccola comunità.
Secondo quanto riporta il sito dell’ambasciata della Repubblica di Corea, oggi la comunità coreana d’Italia, concentrata prevalentemente a Roma e Milano, si compone di circa 4.200 membri tra studenti (2.200), imprenditori, religiosi, agenti turistici e commerciali. E mentre in un secondo momento si è assistito a una migrazione «laica», mossa da interessi culturali quali il canto lirico, il design e la moda, l’inizio della diaspora coreana verso lo Stivale si fa risalire agli anni ’60, a conclusione della guerra tra le due Coree, quando i primi immigrati raggiunsero le coste italiche per portare avanti studi religiosi.
Una motivazione particolarmente in voga nel Paese asiatico, dove il 30 per cento della popolazione è cristiana con stime ufficiali che pongono il numero dei protestanti e dei cattolici rispettivamente a quota 8,6 milioni e 5,3 milioni, mentre i missionari all’estero si aggirerebbero intorno ai 17mila, rendendo la Corea del Sud il primo Paese al mondo per numero di evangelizzatori oltreconfine dopo gli Stati Uniti. Senza contare il ruolo fondamentale esercitato dai laici, pionieri della cristianizzazione nella penisola fin dal Diciottesimo secolo, quando filosofi e diplomatici coreani espatriati in Cina si convertirono per poi riportare la parola di Dio in Patria. Nell’era del web 2.0, lo storico contributo “secolare» si riflette nella dinamica partecipazione delle «pecorelle» del Quadraro al continuo aggiornamento della pagina Facebook della diocesi, che attrae fedeli da varie parti del mondo.
Complessivamente, a Roma, si contano cinque chiese cristiane coreane, di cui una cattolica e quattro protestanti, per un totale di circa cinquecento fedeli, ci spiega il pastore Lee Soong della chiesa battista sorta alla fine del Diciannovesimo secolo nel pittoresco quartiere Monti, in via Urbana. Qui, in un edificio neoclassico ingrigito dagli anni, si riunisce una nutrita comunità di fedeli composta da una trentina di sudcoreani, una ventina di italiani e un piccolo numero di praticanti di altre nazionalità. Un melting pot di culture, tradizioni e denominazioni che, in parte, si estende dal cuore della capitale alle borgate. Come sottolinea Lee, spesso le varie diocesi protestanti e cattoliche, seppur distinte e indipendenti, si riuniscono per celebrare le ricorrenze cristiane in un afflato ecumenico che impressiona positivamente la popolazione autoctona.
«Che ti devo dire…i coreani che bazzicano al Quadraro sono molto diversi, anche di aspetto, dai cinesi che normalmente vivono o lavorano nel quartiere», ci dice Luciano Muratori, fonico di presa diretta cinematografica, il cui nonno fu proiezionista del Folgore ai tempi d’oro; «li ho visti sempre eleganti e ben curati, sia le donne che gli uomini. Si direbbe che appartengano a un ceto sociale superiore e proprio perché si vedono poco in giro hanno un qualcosa di misterioso» Li osserviamo sfilare avanti e indietro per via dei Quintili in direzione di un baraccio all’angolo della strada. I bambini corrono impazienti strillando; i genitori, di età compresa tra i venti e i quaranta, seguono composti. I capelli nerissimi spiccano sulle tonalità pastello degli abiti plissettati delle signore e le camice inamidate dei loro cavalieri. Ridacchiano incrociando ogni tanto il nostro sguardo, poi tirano dritto.
«La domenica li vedo sempre frettolosi incamminarsi verso la chiesa; da quello che ho visto sono molto religiosi e affiatati», racconta Muratori. «Personalmente sono riuscito a parlarci solo all’inizio della loro venuta, quando passando davanti al cinema mi accorsi che lo stavano sgombrando. Qualche mese dopo tennero l’inaugurazione e, scorgendo gli inviti sui manifesti che avevano appeso all’esterno, chiesi se potevo vedere come era andata la ristrutturazione. Me lo consentirono. La mia curiosità era dovuta al fatto che l’ultima volta che vi entrai per vedere un film ero soltanto un adolescente. Da allora sono passati più di 40 anni e mi ha fatto piacere rivedere la sala, proprio come la ricordavo, ma rimessa a posto per bene».
Superiamo la hall per addentrarci nella sala principale. Al suo interno, una struttura in acciaio di nuova costruzione s’innalza al di sopra di plinti di fondazione in cemento armato, mentre l’ingresso si trova sotto la galleria, secondo il consolidato schema distributivo delle sale cinematografiche realizzate nel secolo scorso. Una luce soffusa traspare dalla parte absidale dell’aula, sulla quale è ritagliata un’imponente croce retroilluminata. «Uno, due, tre… Madre mia adoraaaata…»: un concerto di voci riecheggia nella grande sala a doppia altezza, la cui acustica è stata affidata a semplici pennellature in cartongesso fonoassorbenti che la rivestono integralmente, occultando alla vista la struttura e gli impianti. Una ragazza al pianoforte accompagna il Coro Gloria, mentre davanti all’altare il nipote del pastore Han dirige i coristi, scuotendo a tratti la testa e agitando le braccia. Si inalbera bofonchiando quando qualcheduno stona. Allora ferma tutti, dà alcune indicazione e poi riparte da capo a sbracciarsi. «Tengono una cerimonia tutti i giorni alle 18, sento la campana suonare fin da casa. Il loro arrivo ha portato una ventata di freschezza», spiega Muratori.
Fa strano che oggi a ravvivare il rione «ribelle» sia una comunità straniera, e religiosissima per giunta.Oltre ad attrarre i quadraroli in occasione delle principali festività cristiane (Natale e Pasqua in primis), la chiesa ha messo a disposizione i propri locali per la celebrazioni del 67esimo anniversario della deportazione nazista, ricordata nell’aprile 2011 con la rappresentazione teatrale Nido di Vespe. L’evento-simbolo del quartiere viene ripreso anche in uno dei murales del progetto MURo, realizzato un paio d’anni fa dall’artista Lucamaleonte all’incrocio tra via Monte del Grano e piazzale dei Quintili. Appena a qualche metro di distanza, c’è la croce eretta in memoria di «chi romanamente cadde», nel cuore del «Quadraro vecchio»: quello che fino agli anni ’70 più faticò a scrollarsi di dosso i fantasmi del dopoguerra, tenuti in vita dalla presenza di baracche in lamiera, strade polverose e case semidistrutte abitate dagli «ultimi», gli immigrati italiani del meridione. Mentre arrivati a Largo dei Tribuni, la zona cambiava già radicalmente aspetto e il «Quadraro nuovo», esempio di modernità e di progresso, vedeva crescere palazzi a più piani, servizi pubblici e attività commerciali, preda della speculazione edilizia.
«Questo è un quartiere storico», si accomiata Muratori, «contiene memorie visibili che vanno dalle vestigia dell’antica Roma imperiale alle ville del medioevo per arrivare a ospitare il primo aeroporto d’Italia e gli studios di Cinecittà. È un quartiere che nel corso della storia ha accolto ogni tipologia umana senza chiedersi mai chi fosse o da dove venisse. Oggi ci sono anche i coreani, domani chissà…».
[Scritto per The Towner]