Un rapporto redatto da Human Rights Watch delinea la situazione critica delle morti per mano della polizia durante la custodia di sospetti criminali. In cinque anni i decessi sospetti si contano a centinaia, nonostante la legge tuteli i diritti di chi viene arrestato e vieti la tortura come metodo per estrapolare confessioni. Norme che le autorità indiane tendono a ignorare sistematicamente.Lunedì 19 dicembre Human Rights Watch (Hrw) ha pubblicato il rapporto Bound by Brotherhood’: India’s Failure to End Killings in Police Custody: 114 pagine di indagini circostanziate su 17 morti in custodia di polizia occorse in India tra il 2010 e il 2015, una percentuale minima rispetto al totale dei decessi sospetti, stimato dalla Ong intorno ai 600 casi in cinque anni.
Hrw si è avvalsa della collaborazione di parenti delle vittime e dei documenti legali a disposizione del pubblico, tracciando un quadro preoccupante della sistematica violazione dei diritti di chi viene arrestato.
Secondo la legge indiana gli ufficiali di polizia, al momento dell’arresto, sono obbligati a identificarsi chiaramente di fronte al sospettato, che ha diritto a una visita medica di routine precedente alla detenzione temporanea: la visita deve stabilire eventuali ferite risalenti a prima dell’inizio della custodia, fissando su un documento (dal valore legale, in tribunale) lo stato di salute del detenuto fino al momento dell’arresto. Dopo la compilazione del referto medico, ogni altra ferita riscontrata durante la custodia viene imputata alle forze di polizia, che ne dovranno rispondere davanti al giudice al momento del processo.
Inoltre, la polizia è tenuta a presentare l’imputato davanti a un magistrato entro 24 ore dall’arresto, chiarendo quali sono le accuse. Obbligo che, assieme alla visita medica, viene spesso non osservato, calando l’imputato in un periodo di limbo legale del quale la polizia può approfittare per spingersi per oltre i limiti della legalità.
Nonostante l’India abbia firmato, ma non ancora ratificato, la International Convention for the Protection of All Persons from Enforced Disappearance, convenzione dell’Onu che vieta esplicitamente il ricorso a tortura per l’estorsione di informazioni o confessioni, gli abusi da parte della polizia indiana sono decisamente diffusi e, spesso, fatali.
Solo nel 2015, secondo il rapporto, su 97 morti in custodia accertate dal ministero degli interni indiano, in 67 casi l’imputato non è stato portato davanti a un magistrato entro le 24 stabilite. E in soli 37 casi gli organi di polizia hanno aperto delle inchieste interne indagando sulle azioni commesse dagli agenti. Per il resto, le cause di morte sono sempre accidentali o suicidio.
La storia di Shyamu Singh è una delle testimonianze su cui si basa il rapporto della Ong americana. Shyamu Singh, si legge nel documento di Hrw, è morto durante la custodia nell’aprile del 2015 nel distretto di Aligarh, in Uttar Pradesh. La causa del decesso, secondo gli agenti, è stata «suicidio». Ma il fratello di Shyamu, Ramu, anche lui arrestato per un furto presunto, ha raccontato agli inquirenti: «[Gli agenti di polizia] ci hanno fatto stendere a terra. Quattro di loro mi tenevano e uno continuava a versarmi acqua nel naso. Non riuscivo a respirare. Quando hanno finito con me, hanno iniziato con Shyamu, che presto ha perso i sensi. Allora hanno iniziato a preoccuparsi e a parlottare tra di loro dicendo che mio fratello sarebbe morto. Uno di loro ha preso un pacchettino e ne ha infilato il contenuto nella bocca di Shyamu».
Storie come quella di Shyamu faticano ad avere un epilogo che porti a condanne per abusi degli agenti coinvolti, a causa del corporativismo interno delle forze dell’ordine. Come ha spiegato un magistrato del Tamil Nadu a Hrw: «La polizia ha il proprio codice di condotta. Non segue il codice di procedura penale».
[Scritto per Eastonline]