Consigliato dall’ìntelligence, il governo australiano esclude il colosso cinese Huawei dal National Broadband Network. La compagnia non offrirebbe sufficienti garanzie in termini di sicurezza ed era già stata bloccata negli Stati uniti. La Cina non ci sta: trattamento ingiusto. (UPDATED) 24 aprile 2012 2 pm, Beijing Time – Update
Il 23 aprile la Huawei ha reso pubblico il rapporto societario annuale del 2011. Il fatturato relativo alle vendite dell’azienda sarebbe stato pari a 32,39 miliardi di dollari, con una crescita dell’11,7 per cento rispetto all’anno precedente e un utile netto di 1,84 miliardi di dollari. In crescita soprattutto il settore estero (14,9 per cento).
Il colosso cinese punta sull’innovazione, annunciando un aumento degli investimenti nel settore ricerca e sviluppo per un totale di 3,76 miliardi di dollari su base annuale (+34,2 per cento rispetto al 2010).
I dati sono positivi, ma segnano comunque una battuta di arresto sul percorso di crescita dell’azienda: il profitto netto, a causa degli investimenti in ricerca e della competizione schiacciante, si è infatti più che dimezzato dal 2010, quando aveva toccato quota 24,7 miliardi di dollari.
11 aprile 2012 5 pm, Beijing Time – La notizia
Il 26 marzo il governo australiano ha reso nota la propria opinione sulla partecipazione della compagnia cinese Huawei al progetto per la costruzione del Broadband Network australiano. Un “no, grazie” senza tanti complimenti.
La compagnia stava cercando si assicurarsi un contratto di oltre un miliardo di dollari nell’ambito di uno dei più ambiziosi progetti di broadband del pianeta.
Nel 2020 – quando dovrebbe essere terminato – Il National Broadband Network connetterà infatti il 93 per cento delle case australiane con fibre ottiche ad alta velocità. Il tutto per un costo totale di 38 miliardi di dollari.
Le autorità australiane non hanno nascosto le loro motivazioni: si tratta di dubbi relativi alla sicurezza nazionale.
Secondo quanto riportato dalla Bbc, il primo ministro Julia Gillard avrebbe dichiarato che “il National Broadband Network è un’infrastruttura enorme ed è naturale che, come governo, noi prenderemo ogni possibile precauzione per assicurarci che funzioni esattamente come vogliamo”.
Il suggerimento sarebbe arrivato direttamente dai servizi d’intelligence australiana, l’Australian Security Intelligence Organization (ASIO). Secondo gli 007, infatti, ci sarebbe il rischio che la Huawei faciliti eventuali attacchi cibernetici.
Sono problemi analoghi a quelli che la Huawei ha avuto negli Stati uniti. Solo lo scorso marzo, infatti, il colosso cinese era stato costretto a ritirarsi da una joint venture formata alcuni anni prima con la Symantec, azienda americana che si occupa di sicurezza su internet (quella del celebre Norton Antivirus).
La direzione di Symantec aveva posto fine alla collaborazione perché temeva che Washington avrebbe smesso di fornirle dati riservati sulle minacce digitali.
E non si tratta di una paranoia dell’ultim’ora, perché già nel 2008 il governo americano aveva bloccato l’offerta di Huawei per 3Com, azienda fornitrice di prodotti contro gli hackers.
Nel 2010, poi, l’azienda si vide proibire la vendita di kit per le telecomunicazioni a Sprint Nextel e quindi a tutti gli operatori statunitensi.
Ma per quale motivo Huawei risulta così sospetta all’estero? Innanzitutto perché, nonostante la compagnia sia privata, il suo boss è un ex ufficiale dell’Esercito di liberazione popolare.
Ren Zhengfei – secondo Fortune il quinto uomo più potente dell’Asia – ha costruito un impero commerciale in buona parte grazie a clienti stranieri, che contano per due terzi dei profitti realizzati dalla sua compagnia.
Ma questo non è bastato a convincere americani e australiani, che temono possibili collegamenti tra la compagnia e il governo cinese.
D’altra parte, l’ipotesi di una “guerra cibernetica” sta diventando sempre più plausibile proprio perché le nostre infrastrutture sono sempre più interconnesse sulla rete. In queste condizioni, la possibilità che un attacco digitale le metta in pericolo viene vista con crescente timore dai vari governi.
Tanto che l’anno scorso il Pentagono è arrivato a rilasciare un rapporto nel quale si equiparava un attacco informatico a un atto di guerra. Un avvenimento al quale, dunque, i vertici militari americani si riservano il diritto di rispondere in modo “convenzionale”. Cioè con i cari, vecchi aerei da combattimento.
Ora, quando si parla di guerra informatica, la Cina finisce sempre per occupare la scena. Si sospetta, infatti, che Pechino abbia sponsorizzato diversi attacchi nel corso degli ultimi anni.
Il caso più famoso è stato quello di Google, scoppiato nel 2010, quando il gigante della rete aveva affermato di essere stato attaccato da hackers che avrebbero preso di mira gli account di politici e attivisti. In quel caso né Washington né Google si azzardarono a puntare pubblicamente il dito contro Pechino, ma i loro sospetti sono di pubblico dominio.
Un altro caso recentemente collegato a presunte attività illecite cinesi è stato quello che ha visto coinvolte 48 aziende chimiche le quali, secondo un rapporto redatto dalla Symantec, sono state vittime di spionaggio industriale.
Ed è celebre il video, mandato in onda dalla Cctv, nel quale le forze armate cinesi dimostrano le proprie capacità in termini di guerra cibernetica attaccando un server localizzato proprio negli Stati uniti.
In questo contesto di crescenti frizioni, come ha reagito la Huawei quando ha visto sfumare il lucroso affare australiano? Comprensibilmente non ha gradito la decisione del governo australiano e si è difesa sostenendo di essere un’azienda aperta che con lo spionaggio non ha nulla a che fare.
Jeremy Mitchell, il responsabile dell’azienda per l’Australia, ha dichiarato che la compagnia intende essere trasparente e si è detto sicuro che “potrà superare quest’ostacolo”.
Alle sue spalle anche l’establishment cinese si è mobilitato per difendere il campione nazionale. Shen Danyang, portavoce del Ministero del commercio ha dichiarato che “l’Australia, in assenza di fatti concreti, non dovrebbe escludere delle aziende dalla normale competizione del mercato per dei cosiddetti motivi di sicurezza”.
Gli ha fatto eco Pang Zhongying, professore di relazioni internazionali presso l’Università del popolo di Pechino quando, intervistato dal China Daily, ha affermato: “sia che si tratti di problemi di sicurezza o di protezione economica, questa decisione non è positiva per i legami fra Cina e Australia”.
Chissà se Canberra e Washington prenderanno queste dichiarazioni per una manifestazioni di sano patriottismo o se non crederanno che, dietro al supporto di esperti e istituzioni, davvero non si nasconda l’interesse del Grande fratello di Pechino.
[Foto Credits: euronews.com]* Michele Penna è nato il 27 novembre 1987. Nel 2009 si laurea in Scienze della Comunicazione e delle Relazioni Istituzionali con una tesi sulle riforme economiche nella Cina degli anni ‘80-’90. L’anno seguente si trasferisce a Pechino dove studia lingua cinese e frequenta un master in relazioni internazionali presso l’Università di Pechino. Collabora con Il Caffè Geopolitico, per il quale scrive di politica asiatica.