Non si placa la girandola di voci sulla presunta liaison tra Huawei e l’esercito cinese. La “pistola fumante” sarebbe da rintracciare nel cursus honorum degli attuali dipendenti ai vari livelli dell’azienda, accusata da Washington di condurre attività di spionaggio per conto di Pechino. Lo dimostra una ricerca coordinata da Christopher Balding della Fulbright University Vietnam, che – indagando sulla struttura societaria di Huawei – ha ottenuto l’accesso ai curricula vitae di 25mila dipendenti. Di questi almeno 100 hanno legami con l’intelligence o le forze armate cinesi: c’è chi ha lavorato nel ministero della Sicurezza dello Stato, il dicastero che supervisiona i servizi segreti cinesi; chi ha collaborato alla stesura di progetti di ricerca in tandem con l’Esercito popolare di liberazione, e chi invece ha studiato presso la principale università militare del paese o vanta un passato nella famigerata Unità 61398, sospettata di aver condotto negli ultimi anni alcuni dei più massicci attacchi hacker contro obiettivi occidentali.
Nel dettaglio, undici dipendenti si sono formati presso l’Information Engineering University, prestigiosa accademia militare considerata il fiore all’occhiello nell’information warfare (IW), approccio al conflitto armato basato sull’utilizzo dell’informazione in ogni sua forma con lo scopo di ottenere un vantaggio militare decisivo. Lo stesso rappresentante legale dell’azienda, Song Liuping – comparso pubblicamente più volte in difesa di Huawei – risulta aver realizzato corsi di specializzazione post laurea alla Liberation Army National University of Defense Science and Technology, supervisionata direttamente dalla potentissima Commissione militare centrale. Ma il cv più intrigante è senza dubbio quello di un dipendente che, definendosi “rappresentante del ministero della Sicurezza dello Stato”, afferma di aver lavorato per “costruire capacità di intercettazione legali in apparecchiature Huawei”. Secondo lo studio, il profilo in questione potrebbe essere correlato alle indiscrezioni circolate recentemente sulla presunta vulnerabilità delle infrastrutture Huawei impiegate da Vodafone nella rete italiana.
Mentre l’avvicendamento tra cariche civili e militari è piuttosto comune nell’industria delle telecomunicazioni, gli analisti puntano il dito contro il tentativo con cui il colosso di Shenzhen avrebbe cercato di insabbiare il percorso formativo dei propri dipendenti. A insospettire è soprattutto la sovrapposizione temporale degli incarichi in contravvenzione al codice interno dell’azienda, che imporrebbe ai candidati di comprovare preventivamente l’avvenuta estinzione del rapporto di lavoro con organizzazioni governative o militari. Un’ambiguità che, d’altronde, rispecchia il più ampio processo di integrazione tra il segmento civile e quello militare, avviato dal presidente cinese Xi Jinping contestualmente a una massiccia riforma dell’esercito. Se poi si pensa ai trascorsi del fondatore di Huawei Ren Zhengfei, vicedirettore del genio militare fino al 1983, ecco che le perplessità acquistano maggiore sostanza.
Gli indizi incriminanti sono molti, ma la pistola ancora non fuma. Non solo nulla prova la complicità del colosso di Shenzhen nelle presunte cyber-incursioni di Pechino. I limiti del report sono abbastanza evidenti: oltre agli autori, nessun’altro ha ottenuto accesso al database e i profili sospetti sono appena un centinaio quando lo staff di Huawei nel 2018 contava in tutto ben 320mila impiegati. Argomentazioni che probabilmente passeranno inosservate a Washington, dove la narrazione del “pericolo cinese” gode ormai di un consenso bipartisan.
Mentre i primi campanelli d’allarme risalgono al 2012, è solo contestualmente all’inizio della “trade war” che l’azienda tecnologica è stata sistematicamente bersagliata da nuove misure restrittive sul mercato americano. La presupposta vicinanza tra Huawei e il governo cinese è diventata uno dei topic più ricorrenti tra Washington e i paesi alleati, sebbene solo in pochi finora abbiano abbracciato l’ostracismo americano.
Secondo quanto riportato ad aprile dal Times, all’inizio dell’anno Gran Bretagna, Australia, Nuova Zelanda e Canada – partner con cui gli States scambiano informazioni di intelligence nell’ambito della partnership nota come Five Eyes – avrebbero ricevuto dalla Cia dettagli sui presunti rapporti simbiotici tra Huawei e la National Security Commission, l’Esercito popolare di liberazione e una terza diramazione della sicurezza dello Stato. Solo pochi giorni prima, un precedente rapporto curato proprio da Balding spiegava come – grazie a un gioco di scatole cinesi – il governo comunista sarebbe l’azionista di maggioranza della società. Non i dipendenti come sostenuto da Huawei nel suo rapporto annuale.
[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.