A Hong Kong in tre giorni 700mila persone hanno votato per il referendum online sulle riforme democratiche. Nel 2017 l’ex colonia britannica avrebbe dovuto scegliere il suo leader con il suffragio universale. Ma secondo Pechino “solo i candidati che amano la Cina sono eleggibili”. La protesta e le reazioni della Repubblica popolare.
700mila hongkonghesi non sono nulla se confrontati al miliardo e 300milioni di cinesi. È questa la tesi di fondo dell’editoriale del Global Times che oggi riporta la notizia del referendum di Hong Kong definendolo “una farsa illegale” e mettendo in guardia “l’opposizione” di Hong Kong sul “ricordare come lo Stato – leggi la Repubblica popolare – ha sconfitto l’amministrazione della Lady di Ferro per riprendersi Hong Kong”. Quest’ultimo passaggio sul primo ministro britannico Margaret Thatcher è però scomparso in giornata dalla versione online dell’articolo.
Era il settembre del 1982 quando Deng Xiaoping, l’architetto della Nuova Cina, la incontrò a Pechino per discutere sul destino di Hong Kong. All’epoca la Thatcher era ancora piena del discutibile trionfo sulle Falklands e sembrava irremovibile. Se Pechino avesse continuato a insistere per riprendersi la sovranità sull’ex colonia britannica sarebbe stata una tragedia: “chi ha soldi e capacità lascerà immediatamente il territorio. Di conseguenza il collasso economico sarà irreversibile”.
Il primo ministro britannico insisteva sul fatto che la Gran Bretagna avrebbe dovuto gestire l’ex colonia anche dopo che la licenza sui Nuovi Territori fosse scaduta nel 1997. Ma in questo caso fu Deng a vincere il braccio di ferro. La sovranità su Hong Kong non era un fatto che poteva essere discusso e la Repubblica popolare si sarebbe ripresa i territori di Hong Kong non appena la licenza fosse scaduta. Alla fine Londra abbandonò il progetto di mantenere la sovranità su Hong Kong dopo il 1997 e le due parti firmarono nel 1984 la Dichiarazione congiunta sino-britannica.
Qui si concordò l’"alto grado di autonomia come regione amministrativa speciale, in tutti i settori ad eccezione della difesa e della politica estera". La Dichiarazione stabilì inoltre che la zona avrebbe mantenuto il suo sistema economico capitalista e garantito diritti e libertà ai suoi cittadini per cinquant’anni. Cioè fino al 2047.
Tali garanzie vennero sancite dalla costituzione, la Legge Fondamentale di Hong Kong (formulata sulla base del Common Law britannico). Tuttavia, si specificò, quest’ultima sarebbe stata soggetta all’interpretazione del Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo. In seguito il governo cinese aveva promesso che il prossimo leader di Hong Kong – che paradossalmente si chiama Amministratore delegato e attualmente è nominato da un comitato di 1.200 individui espressione dei gruppi economici e di potere della città – sarebbe stato scelto attraverso il suffragio universale. Questo sarebbe dovuto avvenire per la prima volta nella prossima tornata elettorale del 2017.
Ma recentemente Pechino ha escluso che i candidati possano essere nominati pubblicamente, ponendo l’accento sul fatto che “solo i candidati che amano la Cina sono eleggibili”. Così, i gruppi che avevano già animato il movimento di Occupy Central (il distretto finanziario dell’ex colonia britannica) si sono mobilitati. Hanno organizzato il referendum online e hanno chiesto di partecipare in massa all’annuale marcia per la democrazia. Quella che ogni primo luglio, dal 1998, segna l’anniversario del ritorno dell’ex colonia britannica alla Cina.
“Chiunque pensi che questo referendum online sia illegale o sia stato oggetto di brogli dovrebbe chiedere al governo di Hong Kong di organizzare un referendum ufficiale”, ha dichiarato alla stampa Chan Kin-man, uno degli organizzatori di Occupy Central. E allo stesso tempo ha chiesto agli altri gruppi che partecipano al movimento di Occupy, soprattutto agli studenti, di non organizzare azioni il giorno della marcia.
Gli fa eco il professore di legge Benny Tai, anch’esso uno dei promotori del movimento. “Lo spirito della disobbedienza civile è quello di esaurire tutte le vie legali prima di protestare”. E aggiunge: “Sapremo i risultati del referendum solo il 30 giugno e dobbiamo dare al governo un lasso di tempo ragionevole per risponderci prima di decidere il passo successivo”. Queste le parole di quello che la scorsa settimana è stato più volte definito “l’uomo più pericoloso della città”.
Ma è innegabile che il suo movimento per la democrazia sta entrando nella fase più pericolosa. Pechino attacca e censura le sue azioni politiche. E nel frattempo si alza il coro di chi lamenta che il suo movimento porterà caos e danni economici nel cuore nevraglico di Hong Kong. Il sito di Benny Tai e quello del quotidiano Apple Daily, che gli aveva dato ampia copertura, sono già stati oggetto di attacchi informatici.
Come andrà a finire si capirà nelle prossime settimane, ma quello che pare certo è che se Pechino prenderà in considerazione il diffuso malcontento di Hong Kong non sarà certo per fare concessioni.
[Scritto per Lettera43; L’illustrazione di copertina è di Rebel Pepper, la traduzione su Caratteri Cinesi]