Dopo ormai dieci settimane di proteste a Hong Kong, da ieri c’è una domanda che aleggia nella tensione generale dell’ex colonia britannica: la Cina sopporterà ancora le manifestazioni senza compiere nessun atto concreto? Fino a ieri l’ipotesi di un intervento militare sembrava completamente fuori discussione: le due conferenze stampa tenute dall’ufficio politico di Pechino a Hong Kong avevano lanciato avvertimenti, avevano bollato le proteste come «rivoluzione colorata» aizzata dagli Stati uniti, e si erano limitate a sottolineare le violenze dei ragazzi e delle ragazze per strada contro la polizia locale, cui la dirigenza cinese aveva espresso sostegno.
Da oggi, invece, pur apparendo ancora un azzardo, l’ipotesi militare acquisisce un peso diverso nelle valutazioni: ieri Pechino ha invece accusato apertamente i manifestanti di Hong Kong di «terrorismo» a causa della loro «violenza», con la quale secondo la Cina hanno affrontato la polizia locale. Ma non solo perché nella giornata di ieri i media cinesi, prima l’ultra nazionalista Global Times e poi l’organo ufficiale del partito comunista, il Quotidiano del popolo, hanno mostrato un video di truppe dell’esercito cinese radunate a Shenzhen, la città confinante con Hong Kong e dalla quale si può raggiungere la città in tempi brevissimi.
SECONDO I DUE MEDIA CINESI si tratterebbe «apparentemente di esercitazioni», ma la vicinanza geografica e la tensione palpabile non lasciano troppo spazio all’ottimismo.
Resta da chiedersi se la Cina davvero possa permettersi un eventuale colpo di mano militare, dopo anni di faticosa costruzione di una reputazione internazionale capace di accreditarla come potenza responsabile.
Tutto quanto raccontato nelle occasioni internazionali rispetto alla propria «ascesa pacifica» potrebbe essere smentito con una semplice decisione.La Cina – nel caso di un intervento militare – potrebbe giustificarlo con la scusa che Hong Kong è «un affare interno» come più volte ripetuto.
PROPRIO COME FA con il Xinjiang, la regione nord occidentale a maggioranza musulmana. Se ancora qualcuno nutre dei dubbi riguardo l’esistenza di veri e propri campi di rieducazione – che la Cina definisce «vocazionali» – nessuno può mettere in discussione la clamorosa campagna securitaria e repressiva che si è abbattuta sulla minoranza uigura. Eppure, ben pochi a livello internazionale hanno protestato contro il comportamento cinese. Per quanto riguarda Hong Kong, però, c’è anche un altro elemento: bisogna prendere atto che politicamente un compromesso politico al momento è impossibile.
Kerry Brown, grande conoscitore della Cina, su The Spectator ha scritto un commento nel quale ritiene che la mancanza di uniformità tra le anime dei manifestanti possa costituire un vantaggio per Pechino. Ma questa frammentazione, unita alla mancanza di un programma politico unificante da contrapporre innanzitutto al governo cittadino, potrebbe risultare anche un’eventualità capace di mettere in difficoltà il governo centrale cinese: Pechino infatti, posto che voglia trattare, al momento non ha alcuna proposta su cui si può davvero arrivare una mediazione.
I CITTADINI DI HONG KONG che protestano, soprattutto giovani di tutte le fasce sociali, non vogliono vivere in una città sotto il dominio cinese. Aspirazione legittima ma purtroppo per loro inattuale: nel 2047 come stabilito tra Cina e Gran Bretagna, Hong Kong passerà definitivamente sotto l’egida politica di Pechino, che a sua volta sceglierà come amministrare la città. L’obiettivo politico dei dimostranti, dunque, dovrebbe poter trovare un possibile compromesso alla luce di questo passaggio. Difficile sapere quale.
UN POSSIBILITÀ potrebbe essere quella di spingere sulla richiesta di suffragio universale, così come garantito – pur all’interno di passaggi graduali – dall’articolo 68 della Basic Law, la Costituzione (sottoscritta da Pechino) potrebbe essere un primo passo.
Intanto, in questi giorni, il sit in all’aeroporto ha ottenuto grande solidarietà nonostante i disagi, da parte di tante persone che hanno portato ai manifestanti cibo e acqua. Oggi il sit in, che ha bloccato tutti i voli, continuerà nonostante non sia stato autorizzato: i manifestanti tra le altre rivendicazioni chiedono anche un’inchiesta seria e trasparente sulle violenze compiute dalla polizia che nei giorni scorsi – dopo la figuraccia internazionale per l’«aiuto» avuto da criminali delle triadi lanciati in giro a picchiare ragazze e ragazzi inermi all’interno di una stazione della metro – ha fatto largo uso di gas lacrimogeni e di infiltrati, come denunciato in rete e sui canali di Telegram.
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.