Nel 2017 Hong Kong potrà votare il primo ministro della città Stato – il «chief executive» – con il suffragio universale. Una persona, un voto; si tratta di una possibilità straordinaria per un territorio che, per quanto governato secondo la logica del «un paese due sistemi», è cinese.
Il problema, molto semplicemente, è che tutti gli elettori di Hong Kong potranno votare solo due o tre candidati, scelti attraverso un passaggio preliminare e nominati da varie commissioni. Non ci sono dubbi che la rosa dei nomi sarà ovviamente gradita a Pechino. Non a caso la decisione è stata presa dal Comitato permanente dell’Assemblea Nazionale del popolo di Pechino (quanto di più simile ad un parlamento in Cina).
Per il governo centrale di Pechino, il controllo delle «periferie» è uno dei compiti più delicati da affrontare. Al riguardo, non deve esserci nessuna pietà: tutto quanto è distante dal centro, deve rispettare i dettami del partito, non può in alcun modo uscire dai binari prestabiliti. Nel cuore dei politici cinesi c’è la certezza – motivata dall’esempio della dissoluzione dell’Unione sovietica – che anche un solo cedimento, può finire per mettere in discussione tutto il potere accumulato.
Abbandonare la presa una volta sola, potrebbe risultare fatale. E non è detto non abbiano torto, a Pechino. Perdere di vista la «società armoniosa», in nome di una «società caotica», è dunque quanto di peggio possa accadere ad un politico dell’attuale Partito comunista cinese. Figurarsi se di questo svarione, può essere vittima il numero uno del Paese.
Pechino – via Xi Jinping – non fa sconti a nessuno, e per certi versi la semplicità della comunicazione politica asiatica, favorisce la comprensione. In questi giorni gli esperti, gli analisti e gli osservatori della Cina, si chiedono le ragioni dietro questa scelta di Pechino, considerata oltremodo conservativa.
Le motivazioni fornite dalla leadership, sono molto semplici: non può essere votato un candidato contrario al controllo di Pechino sulla colonia. In parole povere è questo il messaggio lanciato dalla capitale e ripetuto ieri dal delegato Li Fei, giunto a Hong Kong per spiegare la decisione. «Questi diritti vengono da leggi, non provengono dal cielo – ha detto il funzionario cinese – molte persone di Hong Kong hanno sprecato un sacco di tempo a discutere di cose inappropriate, mentre non hanno discusso di cose ben più importanti».
Ad esempio, secondo Pechino, del fatto che «la prosperità a lungo termine e la stabilità di Hong Kong e gli interessi circa la sovranità, la sicurezza e lo sviluppo del paese sono in gioco. Per questo è necessario procedere in modo prudente». Proteste sono in corso fin da domenica sera, il giorno in cui Pechino ha reso nota la propria scelta, mentre da ieri altri manifestanti stanno tentando di palesare il proprio dissenso. Ci sono anche i «pan democratici» di Hong Kong, personalità locali, avvocati e legislatori, atterriti e contrari alla scelta di Pechino.
Alcuni di loro potrebbero anche fare saltare l’accordo, attraverso la votazione della direttiva pechinese, ma l’ipotesi appare piuttosto remota. Pechino non può permettersi che a Hong Kong il suffragio universale diventi qualcosa di vagamente simile ai sistemi democratici occidentali. Chi potrebbe, a qual punto, negare quei diritti ad altre regioni cinesi? Chi potrebbe giurare che altre aree, quelle più sensibili e meno conformi alle strategie centrali, non possano entrare in subbuglio dopo la decisione di lasciare libertà agli abitanti di Hong Kong?
La scelta di Xi Jinping è conservativa, dura e non ammette repliche: è così e basta. Hong Kong è cinese e come tale deve rimanere. Chi la guida deve avere la piena fiducia di Pechino e rispettare i rapporti di forza. Naturalmente il movimento di contestazione – che già nei mesi scorsi aveva presentato un referendum incentrato proprio su come votare nel modo più democratico il primo ministro dell’isola e capace di mobilitare centinaia di migliaia di persone – è in piena agitazioni. Sono state promesse nuove manifestazioni, è stata annunciata l’era della «disobbedienza civile» di Hong Kong.
Il movimento Occupy Central è già pronto a nuove iniziative. È stato anche paventato un astensionismo di massa alle elezioni, mentre qualche osservatore ritiene che la situazione sia al limite. A tal punto da immaginare l’intervento dell’Esercito popolare. Difficile dire adesso cosa potrebbe succedere, nel caso si irrigidisse a tal punto il confronto. Hong Kong – nella sua totalità, non è completamente concorde con le idee dei «democratici», anzi.
Pur con il sostegno di Pechino e di parecchi infiltrati dalla Cina continentale, nelle settimane scorse una manifestazione ha voluto confermare la propria fiducia e il sostegno all’attuale metodo di governo dell’isola. Del resto l’occhio di riguardo di Pechino, viene considerata una garanzia per rimanere ancorati al centro nevralgico del potere economico dell’area asiatica.
[Scritto per East; foto credits: wanderingchina.org]