Nell’estate del 2003, oltre 500mila manifestanti marciarono per le strade di Hong Kong facendo naufragare l’approvazione di una legge anti-sedizione – considerata lesiva delle libertà personali – tesa a punire qualsiasi atto di tradimento, secessione, sedizione e sovversione contro il governo centrale. A diciassette anni di distanza, la proposta torna a minacciare l’autonomia dell’ex colonia britannica, riconsegnata alla Cina nel 1997 sotto il motto “un paese due sistemi”. Stavolta la posta in gioco è anche più alta.
Secondo quanto annunciato la scorsa settimana, l’Assemblea nazionale del popolo (il parlamento cinese) si appresta a introdurre una cornice normativa che, tra le altre cose, permetterà agli apparati di sicurezza cinesi di operare nella regione amministrativa speciale alla luce del sole. La mossa – che bypassa completamente il Consiglio Legislativo locale (LegCo) – permetterà a Pechino di “adottare le misure necessarie a stabilire e completare il sistema legale della Regione amministrativa speciale di Hong Kong e i meccanismi di applicazione per preservare la sicurezza nazionale e prevenire, fermare e punire legalmente, comportamenti e attività che mettono a repentaglio la sicurezza nazionale.” Di più: servirà a “fermare e punire l’uso di Hong Kong da parte delle forze straniere e d’oltremare per portare avanti attività separatiste, sovversive, d’infiltrazione o distruttive.”
Come ricorda la risoluzione in sette punti introdotta dall’Anp, “preservare la sovranità, l’unità e l’integrità territoriale della nazione è responsabilità costituzionale della Regione amministrativa speciale”. Lo stabilisce quell’articolo 23 della Basic Law contro il quale la popolazione protestò ferocemente nel 2003 e che obbliga l’amministrazione hongkonghese ad adottare misure legali a difesa della mainland. Da una prospettiva cinese, il movimento degli Ombrelli e le proteste antiestradizione hanno reso anche più impellente la necessità di chiudere “le falle della sicurezza” e combattere i “segni del terrorismo”. Aggirate le resistenze del LegCo, dove i democratici frenano da mesi l’approvazione di una legge contro vilipendio dell’inno cinese, la bozza potrebbe venire ultimata già il prossimo mese, quando il comitato permanente dell’Anp si riunirà nuovamente.
La decisione – paragonata dal New York Times all’annessione russa della Crimea – avrà comprensibilmente ripercussioni globali. A preoccupare è soprattutto l’evidente erosione dell’autonomia che ha permesso al “Porto Profumato” di diventare un centro finanziario internazionale. A partire dall’indipendenza del suo sistema giudiziario. La questione è complessa. Apparentemente, il “colpo di mano” di Pechino ha basi legali: trova supporto nell’articolo 18 della Basic Law, stando al quale le leggi nazionali – se concernenti la difesa e la politica estera (ecco perché il riferimento all'”ingerenza straniera”) – hanno validità anche a Hong Kong una volta aggiunte all’Allegato III, la sezione creata per armonizzare “i due sistemi”. In tal caso, l’attuazione può avvenire tramite promulgazione diretta del Chief Executive, quindi proprio saltando il Consiglio Legislativo. A chiarimento, il vicepremier cinese Han Zheng ha ribadito che la risoluzione non esime Hong Kong dall’obbligo di emanare una propria legge ai sensi dell’articolo 23. Segno che la misure imposte da Pechino – lungi dall’essere sostitutive – in futuro, potrebbero funzionare in tandem con i provvedimenti emessi dal governo locale, spiega RTHK. Quanto al possibile dispiegamento in loco dell’intelligence nazionale c’è già un precedente. Maria Tam, vicepresidente del Basic Law Committee, porta ad esempio la guarnigione dell’Esercito popolare di liberazione, sul posto per fornire assistenza in situazioni di emergenza previa “approvazione” delle autorità locali. Secondo il giurista Johannes Chan Man-mun, “è probabile che ad essere coinvolta sarà un’unità del Ministero della Sicurezza dello Stato che, non essendo un dipartimento del governo centrale, bensì il governo centrale stesso, opera fuori dal raggio d’azione dell’articolo 22 della Basic Law” che vieta ai “dipartimenti del governo centrale” di interferire negli affari interni della regione amministrativa speciale. Una tesi stiracchiata, certo, ma in assenza di dettagli precisi l’interpretazione giuridica presta il fianco alle tesi più azzardate.
La Bar Association, l’Ordine degli avvocati di Hong Kong, ha definito la manovra “problematica” e “incompatibile” con le leggi locali. Ma per Fabrizio Franciosi, sinologo, esperto di diritto internazionale nonché autore di Macao 1974-1979: Ombre cinesi sulla sovranità portoghese, la faccenda trascende le relazioni con la mainland. “Le misure adottate da Pechino sono grosso modo conformi alla Basic Law”, spiega Franciosi a China Files, “tuttavia, i cinesi, nell’atteggiamento dispotico che purtroppo li contraddistingue da alcuni anni a questa parte, non hanno considerato che alla base della Legge fondamentale di Hong Kong vi è un accordo internazionale sino-britannico che prevede il famoso ‘alto grado di autonomia’ per il territorio.” Secondo Franciosi, “i trattati internazionali vanno applicati – come qualsiasi ‘contratto’ fra privati – secondo buona fede. È un principio cardine del diritto internazionale: qualsiasi norma interna (come la Basic Law) adottata sulla scorta del trattato va interpretata e applicata alla luce della buona fede. È un principio davvero basilare… in altre parole, se una delle parti legifera al proprio interno senza rispettare l’essenza dell’accordo che lo vincola ad una o più controparti, viola il diritto internazionale, potendo pertanto soggiacere al giudizio della Corte internazionale di giustizia, sempre che la controparte che si ritiene lesa le sottoponga il caso. Al riguardo, la Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati è sufficientemente chiara.”
Detto altrimenti, ci sono diversi elementi per ritenere che la Cina abbia appena adottato una regolamentazione non conforme al trattato del 1984 che la lega a Londra. “Pechino è molto abile a manipolare l’informazione veicolata all’estero: le leggi su Hong Kong devono essere interpretate non solo seguendo la Basic Law, ma direi soprattutto ciò che la Thatcher e Deng Xiaoping avevano messo nero su bianco”, spiega Franciosi, “certo, per il giudizio innanzi alla Corte di giustizia è necessario che la parte in causa accetti di essere chiamata in causa. E qui si apre un altro lungo excursus sull’efficacia degli strumenti per attuare misure che, nel caso specifico di Hong Kong, non riguardano, per dire, il rispetto di una linea di confine o altro, ma diritti civili, politici, umani. E tutto ciò è ancora più grave: la Cina ha sostanzialmente le mani libere, anche se applica norme interne palesemente in contrasto con il diritto internazionale…”
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.